L’Euro ha 20 anni
Un’età difficile

Non si odono squilli di tromba per i 20 anni dell’euro, nato il 1° gennaio 1999 come valuta ma diventato banconota fisica dal 2002. L’argomento s’è fatto controverso e, a pochi mesi dalle elezioni europee, non porta voti e non scalda menti e cuori. Chi dovrebbe difendere questa conquista si rivela reticente, ma anche chi inseguiva l’idea di un divorzio all’italiana ha fatto marcia indietro dopo la baldanza elettoralistica: più agevole fare il surf sui migranti, questione spendibile per i sovranisti, tanto più che in materia il governo Conte non ha trovato in Europa la sponda dei partiti contigui.

Eppure l’euro, che oggi riunisce 19 economie, meriterebbe qualcosa di meglio, pur con tutti i suoi limiti, a partire da quello più evidente: una divisa senza sovrano, una politica monetaria comune per un’area ancora molto diversificata. Se per Monti l’euro, in piena crisi dei debiti sovrani dopo il contagio della Grecia, ci ha salvato, per Prodi proprio gli anni più duri (quelli della «sciagurata politica di austerità») hanno dimostrato che senza il pilastro della moneta unica noi europei non avremo futuro.

Quella che è stata la maggiore cessione di sovranità nazionale dei Paesi membri viene oggi percepito come uno strumento che ingabbia la capacità di autodeterminazione dei popoli. Nostalgia dei tempi allegri per un’Italia che ha il macigno del debito e la produttività al palo: sette svalutazioni della lira dalla nascita del mercato unico nel ’79 alla crisi del sistema monetario del ’92, oltre alla mano pubblica per comprare consenso. A 30 anni dal crollo del Muro di Berlino, l’Europa balla sul Titanic e deve decidere il proprio destino. L’Europa di 20 anni fa aveva leader adeguati per una decisione non tecnocratica, ma tutta politica da cima a fondo. Statisti come Kohl e Mitterrand. Dopo il mercato unico e in attesa dell’allargamento a Est, che avverrà nel 2004, per l’Europa si trattava di rispondere alla fine dell’Urss e alla riunificazione tedesca. Incalzato da una Francia preoccupata per l’egemonia dell’ingombrante alleato, Kohl accetta di rinunciare al marco: la moneta dominante in Europa, il simbolo del benessere e della democrazia tedeschi. Una questione di guerra o di pace, diceva il cancelliere che sapeva leggere la storia, mentre la Germania accettava di europeizzarsi.

Oggi nel 2019 il continente è senza leader. L’ultimo, per quanto riluttante, Angela Merkel, è sul viale del tramonto, mentre Macron è sempre più solo. L’Italia ammessa nell’euro era consapevole di aver ottenuto un importante traguardo nazionale, mostrando una coesione con pochi precedenti. Abbiamo condiviso un progetto che non ha uguali e abbiamo svolto i compiti a casa come richiesto, ma non tutto è andato per il verso giusto. Il «vincolo esterno» non ci ha redento del tutto dai vizi antichi. L’economista Carlo Cottarelli, nel descrivere i nostri sette peccati capitali (evasione fiscale, corruzione, eccesso di burocrazia, lentezza della giustizia, crollo demografico, divario Nord-Sud) vi aggiunge anche le difficoltà a convivere con l’euro: non siamo stati capaci di adeguarci a vivere con una moneta comune al resto dell’Europa, perdendo così competitività e potenzialità di crescita. Se la stagione di Eurolandia s’è inaugurata con la convergenza dell’Italia rispetto alle economie più avanzate, il decennio perduto che ha seguito la crisi del 2008 ha sparigliato, rendendo ancora più acute le disuguaglianze, mentre gli ultimi 20 anni hanno prodotto un calo del potere d’acquisto degli italiani. La ricchezza delle famiglie è sì cresciuta, come rileva un recente studio della Banca d’Italia pubblicato dal «Sole 24 Ore», ma è sempre meno equamente distribuita. Pensa anche a noi il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, quando afferma che l’unione monetaria «ha avuto successo in molti campi, ma non è riuscita a dare i benefici auspicati in tutti i Paesi». Quello stesso Draghi che ha consentito alla Bce di tenere la barra negli anni della grande crisi, salvando l’euro (acquisto di titoli e creazione di moneta), ma che a ottobre lascerà: non è una buona notizia. La domanda che incalza oggi, magari provocatoria, è se l’Europa andrà a pezzi nella prospettiva di un cambio di stagione che si profila negativo: l’anno zero di un’avventura al buio. Tuttavia, la stessa parabola della Gran Bretagna, che a marzo sarà il primo Paese ad abbandonare l’Ue, parla di una società che s’è frantumata in mille pezzi entrando in una crisi fra le peggiori. Il paradosso è che ovunque cresce l’insoddisfazione verso questa Europa, ma al dunque, quando arriva l’ora del divorzio, la grande maggioranza degli europei ritiene che sia preferibile restare insieme. Lo s’è visto, salvo sorprese, anche con l’indietro tutta dei sovranisti italiani: meglio restare nell’euro, piuttosto che vivacchiare nella solitudine del cortile di casa.

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