Liberare
il desiderio

Non è raro associare alla Quaresima l’immagine di un tempo oberato da pratiche faticose e magari un po’ tristi. Diffuso è pure il disagio nei confronti del vocabolario del sacrificio e della mortificazione: di suo, la vita non pone già di fronte a frustrazioni e delusioni che ci ricordano impietosamente la nostra impotenza? Che bisogno c’è di infliggersene di proposito? Soprattutto, come può essere degno di Dio ciò che mortifica l’uomo? Qui trova alimento il sospetto che il cristianesimo sia viziato in radice da una morale del risentimento, complice di un dio che troverebbe gloria nel far penare le sue creature. In effetti, una religiosità che fosse costruita sul disprezzo del nostro ingegno e della nostra sensibilità non accrescerebbe la devozione, ma la superstizione.

Nel caso migliore fornirebbe l’alibi ad un’ansia di prestazione, che, nelle cose di religione, è una forma subdola di superbia. Gesù stesso non è affatto tenero nei confronti dell’ipocrisia di coloro che ostentano le loro buone opere, sperando di ottenere ammirazione e prestigio, sostituendosi di fatto a Dio. La denuncia dei rischi non può occultare, però, la straordinaria opportunità che la Quaresima offre, anche a chi non crede. Quella di liberare il desiderio. A scanso di equivoci, l’obiettivo di liberarci dai desideri, oltre che impresa impossibile, sarebbe da respingere con risolutezza, perché vorrebbe dire soffocare ciò che ci rende vivi e ci fa uscire da noi stessi. Ma, allora, da cosa il desiderio ha bisogno di essere costantemente liberato? Dall’idolatria.

Non deve stupire che si parli ancora di idoli in un’epoca di secolarizzazione e disincanto, perché l’idolatria costituisce una tentazione permanente della condizione umana. Per convincersene, basta esaminare il meccanismo di incentivazione al consumo. L’incalzante offerta di oggetti intercetta il desiderio che noi siamo trattandolo come un bisogno da saziare. Il digiuno che interrompe il riempimento compulsivo vale come un esercizio di disillusione, perché libera il desiderio dall’incantesimo dell’immediata disponibilità di ciò che lo può acquietare.

La proposta della pratica dell’elemosina, al di là delle deformazioni esibizionistiche ed umilianti sempre in agguato, indica al desiderio la direzione per rimanere autentico: convertire la brama di possedere e dominare in una ospitalità generativa. «Io voglio che tu sia!», è la disposizione che tutela il mio io dal delirio distruttivo e avverte il desiderio che non potrà mai compiersi «contro» l’altro. La pratica della giustizia è antidoto radicale all’idolatria, perché, ricordando al desiderio la mancanza strutturale che lo connota, smaschera l’inganno che a questa mancanza si possa porre rimedio assoggettando altri.

Quale vantaggio si consegue nel liberare il desiderio dalle illusioni e dalle false promesse? In prima battuta nessuno, perché veniamo restituiti ad una inquietudine scomoda, che ci tiene in bilico tra lo stupore per l’altezza delle nostre aspirazioni e l’impotenza a bastare a noi stessi. Quando il desiderio si misura con la trascendenza che lo abita può tradursi in un lamento, oppure semplicemente rimanere in silenzio. Se in questa particolare forma di attesa risuona la parola della Croce di Gesù, il nostro desiderio viene sorpreso da una passione che svela la mancanza che affligge il nostro essere non come una punizione, ma come una vocazione. Di fronte a Gesù di Nazareth, la scoperta che io non sono «Dio» non è mortificante, ma l’indizio di una possibilità che supera la mia immaginazione: la possibilità di essere accolto in una alleanza che è più forte della morte. Al nostro desiderio viene dischiusa un’esperienza inaudita: che il vertice del potere è un ricevere.

All’ingresso della Quaresima lasciamoci raggiungere dall’invito che la lettera agli Ebrei (4,16) formula ai piedi di Gesù Crocifisso: «Accostiamoci con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia».

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