L’interesse italiano
e quello Ue coincidono

Un cinese lavora in una settimana 8,4 ore in più rispetto alla media di un lavoratore tedesco. Non solo è più a lungo in fabbrica, ma crea con maggior intensità. Dei 3,3 milioni di brevetti registrati al mondo nel 2018 la metà vengono dalla Cina. Tre volte di più degli Stati Uniti. Sono dati tratti dal «Report World Intellectual Property Indicators». L’America first del presidente Trump nasce da qui.

Una strategia difensiva per proteggere quel po’ che resta del dominio americano e che potremmo riassumere in pochi nomi da Amazon a Microsoft passando per Google e Facebook con l’aggiunta di Silicon Valley. Il resto è l’elettorato di Trump, un mondo industriale che non c’è più, un ceto medio sbriciolato dalla concorrenza di chi lavora di più e a prezzi stracciati. Rust Belt, la cintura industriale dell’acciaio, vorrebbe la rivincita, ma ormai l’acciaio è appannaggio di Cina e India. In Italia, a Taranto e Piombino, ormai lo sanno.

Trump ha resuscitato i dazi, uno strumento d’altri tempi, quando la guerra commerciale anticipava quella vera, combattuta al fronte. Ma è difesa, non attacco. E sono proprio i cinesi a non volerne sapere di antagonismi muscolari. Troppo evidente la loro superiorità per pensare di farne una sfida militare. Hanno già trovato la via per ridurre il danno. Se con gli americani non si può più trattare allora si riannodano i fili della diplomazia verso i vicini asiatici. Scartati i giapponesi che vedono nell’America l’argine al superpotere cinese, restano l’Indonesia, la Malesia e soprattutto l’India. Con quest’ultimi e altri tredici Paesi asiatici si è costituito un blocco economico in Asia che non ha eguali nella storia. Si scrive, con un’abbreviazione, Rcep che sta per «Regional Comprehensive Economic Partnership», un nuovo mercato comune nel quale vivono tre miliardi di persone, tre volte tanto quelle dell’Unione Europea. Mentre Trump tenta di dividere, Pechino riunisce e mette insieme Stati che da sempre diffidano della Cina. È la via della seta, quella del più forte che offre disponibilità finanziarie, opportunità di affari, sbocco di mercato, che si offre volontariamente all’aiuto, sapendo che poi il tutto ritornerà in termini di egemonia. Sono 16 Stati con il 40% del volume del commercio mondiale. L’Unione europea tanto per dare un’idea è al 15%. Washington fa la guerra commerciale e i cinesi rispondono con una crescita nel primo semestre del 2019 del 10% nell’interscambio con gli altri 15 Paesi dell’intesa. Gli Usa sono da quest’anno solo il secondo Paese nell’import-export con l’area asiatica. Il primo è la Cina.

Vi è quindi uno spostamento degli equilibri che non può non avere riflessi geopolitici. Il cancelliere della Repubblica federale tedesca Angela Merkel è da 14 anni ininterrottamente al potere. È stata in Cina dodici volte. Pochi mesi fa ha stipulato un accordo che permette al colosso delle comunicazioni Huawei l’accesso alle gare per internet super veloce 5G. Tutti sanno che l’azienda cinese, anche se privata, è sotto il controllo dello Stato e quindi del Partito comunista che in qualsiasi momento potrebbe chiedere l’accesso ai dati. Ma l’industria automobilistica tedesca non può perdere il mercato cinese e troppi sono gli interessi economici del settore per un Paese come la Germania, a forte dipendenza export.

L’Unione europea si vota all’instabilità, vedi la Brexit, e non vede che la divisione è il vero cavallo di Troia per chi dell’Europa vorrebbe fare il suo campo di espansione. Solo la coesione degli Stati europei può rappresentare un baluardo al prevalere degli altri blocchi. Per un Paese come l’Italia vuol dire che l’interesse nazionale si coniuga con quello europeo.

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