L’Italia insicura
Choc per reagire

La rilevazione Istat per l’anno 2018 segnala un’elevata insoddisfazione per la propria vita dal 39,9% al 41,4% tra le persone oltre i 14 anni di età. Si tratta di parti della società che definiscono il proprio lavoro: flessibile, temporaneo, precario. L’altra metà della mela è data dal cosiddetto ceto medio, una classe intermedia che si abbarbica al posto fisso nella pubblica amministrazione o nelle imprese, che è attiva nei nuovi lavori, fa impresa. Sia gli uni che gli altri hanno tuttavia una cosa in comune: temono per il futuro. È l’insicurezza che tiene la società italiana, meglio che la blocca. Se insicurezza è il leit-motiv è chiaro che il bene richiesto è il suo contrario ovvero la sicurezza. Ed è quello che i partiti di governo hanno offerto nei loro programmi elettorali, due su tutte: la sicurezza sociale ovvero il presidio del territorio dall’immigrazione irregolare e la lotta alla povertà ovvero la richiesta di sicurezza economica.

Si ha un bel dire che i posti di lavoro li crea una sostenuta crescita economica. È il presente che conta, l’indignazione per la condizione perduta va compensata. Quando i molti dicono di essere stati abbandonati dalle istituzioni, pensano a questo, al bisogno di sapere che qualcuno si occupa di loro. Vi è un’inquietudine individuale che trova nella domanda di certezze la sua espressione politica. L’impaurito, il soggetto della «banalità della paura», come la definisce Hannah Arendt teme il nuovo e vorrebbe un ritorno alla tranquillità perduta. Non rilancia per andare oltre, per esempio con la sfida la rivoluzione tecnologica, la ricerca di nuovi saperi, la disponibilità a mettersi in gioco,a ricominciare da capo come negli anni della ricostruzione del dopoguerra. Alfine molto in questi anni di profondi cambiamenti è andato distrutto. No, preferisce riportarsi al già noto. Questo spiega la parabola di Renzi, un fallimento più individuale che di governo.

La sicumera nel presagire un futuro che appariva di prospettiva solo ai suoi illuminati consiglieri ed amici ma risultava estraneo al sentire dei concittadini alle prese con una crisi economica, della quale ancor oggi il Paese soffre. Al Pd premeva la creazione di occupazione, che appunto si manifesta nel tempo, mentre invece è il sostegno al reddito, la prima preoccupazione. Tangibile, immediata e soprattutto gridata. Ora che adesso siamo in recessione tecnica e già si parla di aumento dell’Iva e di possibile patrimoniale per parare i danni di un’incauta previsione di crescita all’1,5% tutto sarà come prima, all’insegna dell’eterna emergenza. Ma non si rallegrino coloro che pensano ad un ritorno dell’opposizione sui banchi di governo. Il «sentiment» rimarrà lo stesso, ovvero di fiducia verso l’esecutivo in carica. Gli italiani sono per l’Europa solo che ritengono essere troppi gli errori compiuti a Bruxelles.

Eccesso di regolazione del mercato interno mentre non si faceva nulla contro la concorrenza sleale dei prodotti cinesi, un allargamento ad Est non articolato nel tempo e quindi troppo invasivo degli equilibri in atto, un’accettazione supina del trattato di Dublino che penalizzava Paesi come Grecia e Italia sull’immigrazione, una politica economica centrata solo sulle discipline di bilancio e non in modo adeguato sugli investimenti. Chi dice di essere per l’ Europa finisce per appiattirsi su queste politiche perché nel passato non ha mai alzato la voce. E poi gli effetti della crisi in atto, come nel biennio 2007-2009, si percepiscono solo a valle quando incominciano ad andare persi posti di lavoro. Per adesso solo gli industriali sentono il pericolo dei mancati investimenti ed infatti protestano. I Paesi vecchi, come il nostro - e la Francia in questo ci è vicina - hanno riflessi di conservazione e reagiscono solo se costretti. Solo uno choc riporterà l’italiano alla condizione dove da sempre primeggia: nel darsi da fare quando tutto sembra perduto.

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