Lo Stato si dissangua coi soldi dei contribuenti, ma Alitalia non decolla

Il calabrone Alitalia ormai è una costante della storia d’Italia. All’ex compagnia di bandiera dovrebbero arrivare altri tre miliardi che vanno ad aggiungersi ai molti altri (ormai non si riesce più nemmeno a tenere il conto, oscillano dai 10 ai 40) spesi per i ripetuti e ostentati rilanci. Il premier Conte dice che non è un carrozzone di Stato e sfoggia il suo inguaribile ottimismo. Speriamo. Intanto altri due bravi manager si aggiungono alla lunga fila di coloro che hanno cercato di salvare Alitalia: il presidente Francesco Caio e l’amministratore delegato Fabio Lazzerini.

Ci si chiede perché nel 2020 si continui a tenere in vita il calabrone. Ci sono in ballo i posti di lavoro, certo, ma nessuna azienda ha mai avuto tanti finanziamenti per andare avanti. Stiamo parlando di prestiti del Tesoro a fondo perduto per sostenere le perdute, senza contare la spesa in cassintegrazione e altre voci di Welfare per il personale.

Non c’è mai stata realtà economica più sostenuta di Alitalia, su cui pesano ben due procedure di infrazione europee per aiuti di Stato. Fino a che punto hanno pesato logiche clientelari? O si tratta di un asset strategico sul cui altare sacrificare denaro pubblico? A giudicare dagli interventi di Stato si è trattato della regina degli asset. Era giusto così? Forse, ma la grande rivoluzione low cost dei decenni passati ha portato a un rimescolamento globale, con le compagnie di volo che si sono fuse tra di loro. Alitalia, invece, dopo che i «capitani coraggiosi» di Colannino & c. avevano gettato la spugna, perché non avevano previsto il rilancio dell’Alta Velocità, è rimasta sempre come una bella zitella, contesa ma mai maritata.

Abbiamo sempre difeso il nostro vettore nazionale, con il suo passato glorioso e la perizia leggendaria dei suoi piloti, ma questa bandiera ci costa due milioni di euro al giorno da svariati anni. L’emergenza Covid non ha migliorato la situazione. Per immaginare che l’ennesima araba fenice, nata sulle ceneri delle precedenti, possa fare profitti in una fase così difficile per l’aviazione civile mondiale, bisogna avere doti di visionario.

Di idee tra l’altro non se ne vedono: l’ultima quando nel 2019 l’allora ministro dei Trasporti Luigi Di Maio aveva partorito un nuovo asset che prevedeva l’ingresso, nel suo capitale azionario, di Ferrovie, Air Delta ed Atlantia (anche se quest’ultima era già allora in conflitto con lo Stato dopo i problemi per il crollo del Ponte Morandi). Ma quel progetto non decollò mai.

Probabilmente uno dei problemi del Vettore nazionale è che si è molto insistito sui salvataggi finanziari (anche per le legittime pressioni di chi deteneva quel debito) e pochissimo sui piani industriali che dovevano dare nuovo slancio alla Compagnia di bandiera: nuove rotte, nuove soluzioni, nuove formule e pacchetti per i passeggeri.

Anche l’ennesimo piano di salvataggio va in questa direzione. Si punta al taglio del personale e alla riduzione della flotta aerea. Solita bad company per scaricare i debiti, solito pericolo di uno spezzatino. Ma di tagliare, quando un’azienda va male, sono capaci tutti, la bravura sta nel rilanciarla, quell’azienda.

Tra l’altro il costo del personale non è la vera zavorra. Il costo del lavoro pesa per poco più di un quinto dei ricavi, sebbene sia lievitato di 53 milioni su base annua, a causa del rientro di parte dei dipendenti dalla cassa integrazione. Anche i passeggeri non sono diminuiti di molto, nonostante tutto. I maggiori costi sono quelli legati al carburante su cui poco si può fare. Come detto il problema è attirare nuova clientela. Le perdite annue, spalmate sul numero dei passeggeri trasportati, fanno qualcosa come 15,40 euro. In sostanza, ogni volta che un aereo Alitalia si alza in volo, lo fa in perdita. E sapete chi paga quei 15 euro e passa di rosso a passeggero? Provate a indovinare. Avete indovinato: il contribuente italiano.

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