L’uomo moderno
Il mondo stretto

Chi frequenta i social, e in particolare Facebook, sa che la politica estera non gode di molti seguaci né di tanti «mi piace». Nessuna sorpresa: anche nelle altre piazze, quelle non virtuali, è così. E nemmeno i grandi media tradizionali dedicano al mondo il rilievo che meriterebbe, se non quando gli accadimenti oltre frontiera ci toccano direttamente: l’immigrazione, gli attentati in Europa, le politiche economiche che hanno riflessi sulla nostra vita. Da tempo gli esteri sono l’ancella dell’informazione. Fa più notizia la dichiarazione di un leader politico, dalla spiaggia o dal Parlamento, che non una strage in qualche angolo remoto, anche se poi quella strage nel tempo ha ricadute anche sulle nostre terre.

L’uomo moderno, o post moderno che sia, gira il pianeta come non è mai accaduto nella storia umana, per vacanza o per lavoro. Ma è un viaggiare spesso in superficie. C’è poi una parte del mondo, a sud del Mediterraneo, che non genera curiosità e ci è oscura, ritenuta portatrice di guai più che di utilità.

Nei giorni scorsi a Kabul in una sala dove si festeggiava un matrimonio un kamikaze ha provocato 63 morti e 182 feriti. La notizia ovviamente ha trovato risalto sui media ma per un giorno solo. L’attentato è stato rivendicato dallo Stato islamico, che ha dichiarato guerra ai Talebani per le trattative avviate con gli Stati Uniti per la formazione di un nuovo governo. Il presidente degli Usa Donald Trump ha infatti fretta di ritirare i suoi soldati dall’Afghanistan e di consegnare il Paese alla fazione più forte o quantomeno alla sua parte più «buona». Questa trattativa ha dell’incredibile se pensiamo che 18 anni fa siamo andati in quella terra impervia proprio per liberarla dai Talebani che avrebbero dato protezione a Osama Bin Laden. Fin qui il conflitto a Kabul e in Iraq è costato alla Casa Bianca 2 mila miliardi di dollari, una cifra mastodontica che avrebbe risolto molti problemi economici nella nazione a stelle e strisce. Poi c’è il dato più tragico, quello relativo ai morti: oltre 2.400 militari Usa, ai quali vanno aggiunti i 6.500 veterani che ogni anno si sono tolti la vita. Anche l’Italia ha avuto le sue vittime: 54. Mentre quelle civili sono state 5 mila nel solo 2018. Gli Usa vogliono lasciare il Paese, ma anche tanti giovani afghani cercano di migrare, raggiungendo più raramente la Libia e quindi l’Europa o seguendo l’impervia rotta balcanica, diretti in Italia o negli Stati a nord.

E che dire della Siria, scomparsa completamente dai radar dell’informazione? Ne parla solo e spesso Papa Francesco all’Angelus, invitando a pregare per quel popolo martoriato. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, è «profondamente turbato dalla continua escalation nel nord-ovest della Siria e dalla prospettiva di un’offensiva più profonda a Idlib (da parte di Russia ed esercito rimasto fedele ad Assad, ndr), che potrebbe innescare una nuova ondata di sofferenza umana e avere un impatto su tre milioni di civili». In una nota del suo portavoce, Guterres ha «condannato fermamente i continui attacchi a civili e infrastrutture comprese le strutture sanitarie e scolastiche». Ma a cosa è servita tutta questa sofferenza? Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo ha ammesso che ci sono aree in cui l’Isis «è più potente oggi di quanto non lo fosse tre o quattro anni fa», cercando poi di minimizzare il rischio rappresentato dallo Stato islamico in Siria e Iraq.

In Libia invece l’aviazione del generale Haftar ha bombardato l’aeroporto di Misurata, dove ha sede un contingente italiano, salvo per pochi metri. Ma non ne è stata data notizia.

Ci sono anche informazioni positive di politica estera che non ricevono il rilievo e l’interessa meritato, come la creazione in Africa di una zona di libero scambio tra 54 Paesi, che potrebbe finalmente risollevare il continente dalla povertà e dalla colonizzazione commerciale. Fanno invece notizia le dichiarazioni dei leader decisionisti, che mettono gli interessi del proprio Paese prima di tutto, che hanno o chiedono pieni poteri, che fanno sognare. C’è una riflessione del Papa emerito Benedetto XVI che merita di essere conosciuta, per i leader che si dicono cristiani ma anche per i laici: «Il primo servizio che fa la fede alla politica - ha scritto Joseph Ratzinger in “Liberare la libertà: fede e politica nel Terzo millennio” – è la liberazione dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consistite precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non l’assenza di compromesso ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica».

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