Medioriente, le sorti
decise con le bombe

Le bombe non sono solo bombe. Sono anche messaggi, lettere che devono esplodere nella mente degli avversari. È questo chiaramente il caso degli ordigni che Israele lancia contro la Siria per colpire le installazioni, i reparti e le linee di rifornimento delle milizie che l’Iran ha installato nel Paese di Bashar al-Assad. Certo, in un mondo più normale ci si chiederebbe secondo quale diritto un Paese come Israele bombardi un Paese come la Siria, che non ha commesso atti ostili contro lo Stato ebraico, solo perché ha un conto aperto con un alleato della Siria, l’Iran, che a Israele non piace.

Sarebbe come se l’Iran bombardasse gli Usa perché sono alleati di Israele. Ma qui interviene il primo dei messaggi recapitati con le bombe: Israele può farlo perché non rischia niente. Non spende per la guerra, grazie alle copiose sovvenzioni americane, quindi non danneggia la propria economia. Ha uno strapotere militare che lo rende di fatto inattaccabile. E vuole che tutto questo si sappia, come le ultime dichiarazioni del premier Benjamin Netanyahu dimostrano. Anche perché a ogni guerra, guerricciola, intifada o rissa Israele ha sempre accresciuto il proprio controllo sulla Palestina e i palestinesi o la propria estensione territoriale. E anche questo, nell’ottica di Netanyahu, è bene che venga ricordato, al di là delle dichiarazioni bombastiche di questo o quel generale iraniano.

Il secondo messaggio è per chi comanda in Siria. Il progetto saudita-americano di cacciare Assad e smembrare il Paese è fallito e ora, inevitabilmente, si fa avanti la realpolitik. Sono sempre più numerosi i Paesi, anche del Golfo Persico, che riprendono i contatti con Damasco, riaprono le ambasciate e si avviano verso la normalizzazione dei rapporti. Non sarà domani ma sarà. Nemmeno l’asse tra Usa, Israele e Arabia Saudita (a sua volta in difficoltà, nello Yemen e in casa) può impedirlo. Anche perché la vera battaglia dell’asse, oggi, è contro l’Iran, visto come l’anello più debole (anche perché non difeso dalla Russia) della mezzaluna sciita che dall’Iran procede per l’Iraq, la Siria e arriva in Libano e nello Yemen. Non può impedirlo ma può condizionarlo. E la condizione che le bombe israeliane pongono ad Assad è di distaccarsi dall’Iran, allentare l’alleanza, smettere di dargli spazio sul proprio territorio. Anche perché per la ricostruzione della Siria serviranno centinaia e centinaia di miliardi di dollari, e si sa che la vera cassaforte mondiale oggi è nelle petromonarchie del Golfo Persico, proprio quelle che a tutti i costi volevano cacciare Assad e oggi si riavvicinano a lui.

Il terzo messaggio è anche quello più inquietante. Gli Stati Uniti, attraverso Israele e Arabia Saudita, i loro grandi alleati nella regione ma anche i Paesi che dopo una lunga inimicizia hanno trovato ragioni di collaborazione, ribadiscono di sentirsi in diritto di decidere le sorti del Medio Oriente, in qualunque momento e in qualunque modo. Pensiamo solo agli ultimi quindici anni. Nel 2003 l’invasione dell’Iraq, con un atto di colonialismo vecchio stile costruito sulla menzogna delle armi chimiche e sul disprezzo per la comunità internazionale. A partire dal 2011 la collaborazione di fatto al progetto jihadista per distruggere la Siria e allo smembramento della Libia. Nel 2017 la denuncia del trattato sul nucleare iraniano, considerato dal resto del mondo (tranne, guarda caso, che da Israele e Arabia Saudita) perfettamente funzionante, e nel 2018 la sua disdetta, con le sanzioni contro l’Iran e tutto quel che ora vediamo.

L’Iran ha molte responsabilità. Ma nel 2015 ha rinunciato al nucleare per uso bellico, e non è poco. Gli Usa l’accusano di fomentare il terrorismo, ma vanno a braccetto con il fomentatore per eccellenza, il patron dell’Isis, cioè l’Arabia Saudita. Come sempre è questione di potere. La morale non c’entra

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