Ministri social
Stampa ai margini

Il governo del cambiamento ha messo in atto una novità sul piano comunicativo. C’è una netta prevalenza del ricorso ai social network (Facebook in primis, ma anche Twitter) per pubblicizzare le proprie iniziative rispetto ai mezzi tradizionali, in particolare la carta stampata, spesso additata come nemica ormai destinata a morire, secondo il malaugurio del vice premier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio (è quantomeno curioso che un uomo del governo con quella delega auspichi la sparizione di 60 mila posti di lavoro…ma tant’è).

Il governo predilige i social perché consentono una comunicazione diretta con i cittadini, senza l’intermediazione dei giornalisti. E se è la tv, meglio i talk show delle trasmissioni di approfondimento. Un campione del genere è il ministro dell’Interno e vice premier Matteo Salvini: twitta 12 volte al giorno; secondo una ricerca di «Socialbeat», ad agosto, nel pieno delle polemiche sulla nave «Diciotti» bloccata nel porto di Catania con a bordo 177 migranti, il leader della Lega ha triplicato la sua popolarità su Facebook superando perfino Cristiano Ronaldo: la sua pagina ha avuto picchi di un milione tra «mi piace» e condivisioni delle sue parole. Nello stesso mese Salvini ha pubblicato 367 post, 11 al giorno.

Quotidianamente lo ritraggono in azione in qualche luogo d’Italia, oppure mentre si rivolge direttamente al popolo «per raccontarvi quello che stiamo facendo, perché i giornali non vi dicono la verità». Fa ricorso ai social, ma con riscontri molto meno numerosi, anche Di Maio, secondo il quale la stampa «pubblica solo fake news», false notizie. La stampa però è soggetta all’obbligo di rettifica delle falsità, i social network no, anche di quelle dei politici.

Pure esponenti dell’opposizione fanno ormai largo uso dei nuovi mezzi di comunicazione. Ci sono giorni in cui il dibattito politico è definito da un tweet lanciato in rete, generando un batti e ribattiti che tv e giornali sono poi costretti a rincorrere. Ma c’è un punto sul quale vale la pena riflettere: il governo (e i suoi ministri) è un potere dello Stato, insieme al legislativo e al giudiziario, e sarebbe tenuto a comunicare con uno stile istituzionale, incompatibile con la ruvidezza, l’aggressività e l’istintività di certi video-social governativi. Gli esecutivi precedenti usavano lo strumento della conferenza stampa: i ministri relazionano, i cronisti fanno domande. Il governo Conte le ha contingentate prediligendo le «comunicazioni alla stampa»: le domande non sono previste. Forse qui vale la pena chiarire la differenza fra due termini usati spesso come sinonimi ma che si differenziano per una sottigliezza non da poco: comunicare significa far sapere, informare invece dare notizie. Ed è compito dei giornalisti valutare peso e veridicità di una notizia, non di chi governa. La democrazia si regge anche su questa distinzione.

Che non corra buon sangue tra la maggioranza 5 Stelle-Lega e i media tradizionali, accusati di far parte dell’establishment (parola magica) lo si evince anche dalla bozza del Def (Documento di economia e finanza), che impegna il governo a intervenire «per un graduale azzeramento del contributo al Fondo del pluralismo». Un’iniziativa preannunciata dal sottosegretario con delega all’Editoria, il grillino Vito Crimi, quando disse alcuni mesi fa che «la fine dei contributi all’editoria ci sarà e ci deve essere». Ma del Fondo da anni ne beneficiano ormai soprattutto piccole realtà. L’ultima erogazione del 2016 ha riguardato 54 testate generaliste (tra cui i quotidiani Avvenire, Libero, il Manifesto, il Foglio, Dolomiten e Primorski, voce della minoranza slovena in Italia), 121 settimanali per lo più diocesani, 87 periodici per gli italiani all’estero, 33 per i non vedenti e 10 delle associazioni dei consumatori. Accedono ai fondi perché hanno questi requisiti: pubblicano attraverso cooperative, sono di enti non profit o delle minoranze linguistiche nelle regioni a statuto speciale. Nel 2006 lo Stato ha destinato a queste 305 realtà 63 milioni di euro.

Sono esclusi dai finanziamenti quelli che Di Maio e Salvini chiamano i «giornaloni» e la quasi totalità dei quotidiani locali (tra cui L’Eco). Azzerando il Fondo, molte delle 305 iniziative editoriali chiuderanno. L’Italia oggi destina 43 euro per abitante al sostegno pubblico all’informazione, la Francia 64. Ma vuoi mettere i social, dai quali comizi al popolo e nessuno ti fa domande?

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