Né studiano né lavorano
le risposte già in atto

Non c’è molto di nuovo purtroppo nei dati resi noti ieri dalla ricerca realizzata da Unicef sui «neet» italiani. «Neet» è l’acronimo che identifica i giovani «Not in education, employment or training», vale a dire che non studiano, non lavorano e non seguono nessun percorso di formazione. In Italia, nella popolazione tra i 15 e i 29 anni, sarebbero ben 2.116.000 le persone in questa situazione da limbo: senza prospettive e soprattutto senza aspettative. Il picco naturalmente spetta al Sud del Paese, con la Sicilia al primo posto: nell’isola il fenomeno riguarderebbe il 38,6% dei giovani: Calabria e Campania seguono a ruota. Inutile aggiungere che l’Italia nel complesso è il fanalino di coda in Europa e che anche la Grecia ci sopravanza con percentuali minori.

Sono tutti numeri che danno una visione cupa del Paese e del suo futuro. Il sospetto è che sia più cupa di quanto non risulti alla prova dei fatti. È evidente che il problema esiste ed è una delle vere emergenze del Paese. Tuttavia viene da chiedersi a cosa serva questo insistito stillicidio di numeri che periodicamente sembrano inchiodare l’Italia ad un destino segnato ed ineluttabile. La realtà, grazie al cielo, non è a una dimensione, come lo sono invece i numeri: e nelle pieghe di trend complessivamente negativi si nascondono dinamiche differenti, che contengono anche tentativi che sarebbe interessante mettere in rilievo e far conoscere.

Mettere un cappello unico al fenomeno invece è come condannarlo ad una «irredimibilità». Senza tacere che a volte la fabbrica dei numeri è funzionale alla fallimentare fabbrica dei «progetti», che è una vera patologia italiana: quanti progetti/convegni/ricerche si sono fatti sui Neet senza generare nessuna risposta e tantomeno proposte sensate? E chi affronta d’altra parte la questione della qualità del sistema della formazione in Italia, che spesso si trasforma in una forma di dissuasione al lavoro più che di incentivazione?

È più interessante scavare in quei fenomeni che, per quanto piccoli siano, dimostrano come sia possibile aprire una breccia nell’inerzia dei numeri. E si tratta quasi sempre di fenomeni legati a percorsi individuali, a spirito di iniziativa che nessuna analisi aveva intercettato. Per esempio è interessante chiedersi perché l’Italia sia il Paese in Europa con la più alta percentuale di imprese agricole di under 35. Sono quasi 60 mila e sono in continua crescita. È una presenza record che ha rivoluzionato il lavoro in campagna nel nostro Paese, modernizzandolo e soprattutto introducendo stili di vita già allineati all’«epoca di Greta». Certo, per stare alla dimensione dei numeri, si tratta di numeri piccoli rispetto al problema nel suo complesso: tuttavia indicano una strada legata alla natura del nostro Paese, sono uno stimolo a costruire una strategia che vada oltre il fatalismo.

Ma è interessante anche il fenomeno degli Its, gli Istituti tecnici superiori, che registrano tassi di occupabilità altissimi dell’82%, ma che continuano ad essere scelti da troppo pochi ragazzi per una cultura sbagliata da parte delle famiglie, sempre attratte dal mito del liceo: solo le lauree magistrali registrano tassi analoghi. Peccato che il contributo pubblico per il sistema Its sia stato lo scorso anno solo di 60 milioni di euro (di cui 38 di provenienza regionale): quindi una risposta credibile al problema dei Neet viene lasciata a se stessa, nonostante il sistema produttivo per voce delle sue organizzazioni assicuri che il fabbisogno sarebbe di almeno 20 mila diplomati all’anno. Piccoli numeri anche in questo caso: ma se il modello viene messo a regime e si migliorano i collegamenti con le aziende le potenzialità sono molto grandi. Il problema dei Neet va affrontato così, indicando strade, e non seppellendolo sempre sotto i numeri.

© RIPRODUZIONE RISERVATA