Nel segno di Manzù
bellezza senza fine

Esattamente trent’anni fa moriva Giacomo Manzù. Ma le sue opere d’arte continuano a sfidare le insidie del tempo: sono maestose e possiedono una potenza espressiva tale da renderle senza tempo, proprio come le opere della classicità. È con questa consapevolezza che tempo fa l’Università di Bergamo si era impegnata a rendere un doveroso omaggio alla memoria del grande artista, di fama mondiale, ma anche fortemente radicato nel suo territorio. Come scriveva il critico Roberto Tassi, nell’arte di Manzù è possibile scorgere «una sicurezza naturale, una testarda forza, da contadino bergamasco».

Ecco, è proprio da qui che ha preso le mosse la pubblicazione voluta e curata dalla nostra Università e di cui si è dato un ampio resoconto pochi giorni fa su queste pagine. Abbiamo voluto focalizzarci sul rapporto di Manzù con il territorio di Bergamo per gettare nuova luce sul pensiero e sull’opera dello scultore, che non solo non ha mai dimenticato le sue origini, ma che da esse ha tratto il suo potente linguaggio espressivo, capace di fondere la concretezza della materia con lo slancio ideale di ogni essere umano.

Il rapporto di Manzù con il contesto artistico di Bergamo costituisce, in effetti, un elemento chiave attraverso cui leggere la sua intera opera: è dai suoi incontri con artigiani, artisti e architetti bergamaschi – tra cui Francesco Ajolfi, Attilio Nani e Pino Pizzigoni – che lo scultore impara a modellare, a lavorare sui metalli e a concepire la scultura come parte integrante di un progetto più ampio che lo apre al mondo, al di là di ogni confine geografico.

Oltre a Bergamo, Clusone è un nodo territoriale fondamentale per le sue sinergie creative, a partire dalla bottega dell’artista artigiano Attilio Nani, dove Manzù impara l’arte dello sbalzo e del cesello. Durante il periodo della Seconda guerra mondiale, la sua permanenza clusonese gli consente di creare una fitta rete di scambi con artisti, letterati e intellettuali sia locali sia nazionali: da don Bartolomeo Calzaferri ad Arturo Tosi, Achille Funi, Umberto Vittorini, Pietro Fassi, Ezio Pastorio, fino ad arrivare all’amicizia con Salvatore Quasimodo, che non è mai stata indagata a fondo e su cui il nostro volume intende far luce in maniera analitica.

Con questa pubblicazione ci è sembrato naturale e quasi indispensabile riscoprire l’esperienza di Manzù nel suo territorio natale, così da cogliere in maniera ancora più approfondita quel «gesto delle mani» che ha creato non solo la sua scultura, ma anche la sua relazione con gli altri, con la vita. «La luce, quando si lavora, viene dalle mani», diceva Manzù, aggiungendo: «Io lavoro perché mi è una necessità indispensabile all’anima. Per il resto, se vi è qualcosa da dire, penseranno i miei disegni e le mie sculture». Testimonianza felice di un’anima che ha saputo parlare attraverso la materia artistica, egli affida alla sua opera il racconto di un’esistenza interiore che si dà sempre come esperienza concreta e relazionale. Giacomo Manzù «non offre lezioni di filosofia – come ci ha ricordato Mons. Loris Francesco Capovilla –, non ostenta sicurezze che non possiede. Egli presenta dei bronzi di ineguagliabile bellezza persuasiva, impostigli dall’ispirazione».

Un lavoro, quello di Manzù, «da bergamasco» solido e spirituale insieme che noi abbiamo voluto raccogliere come eredità importante di una continua tensione alla bellezza. Nel segno di Manzù e in collaborazione con il Comune di Bergamo, l’Accademia Carrara e la Gamec, due anni fa abbiamo infatti impreziosito il piazzale della sede dell’ex Collegio Baroni del nostro Ateneo con la scultura «Giulia e Mileto in carrozza», un gioiello di rara armonia che ha saputo fondersi con equilibrio anche con il panorama sottostante di Bergamo bassa. Questa scultura, che ritrae i figli dell’artista, Giulia e Mileto, mentre giocano su una carrozza dalle forme essenziali, è la prima cosa che gli studenti vedono mettendo piede in Università. Si staglia davanti a loro, quasi a dare il benvenuto, catturando il loro sguardo grazie a un potente impatto emozionale. È diventata ormai per loro qualcosa di familiare, un’opera d’arte in cui riconoscono la quotidianità universitaria. Ma sono certo che rappresenta anche molto di più, per gli studenti e per chiunque visiti la nostra sede: un invito al viaggio, un viaggio nel mondo della conoscenza e ricco di nuove esperienze di vita, forse il modo migliore per ricordare il maestro Manzù a trent’anni dalla sua scomparsa.

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