Non si fa giustizia
con i fichi secchi

La Giustizia in fin dei conti è un’entità astratta, a volte tendente all’utopico, con le sue nobili garanzie, i princìpi sacrosanti, il diritto di avere diritti da parte di tutti. La sua macchina, invece, è terribilmente concreta, fatta di uomini che possono sbagliare e di risorse di cui è puntualmente lamentata la carenza. Lo sforzo immane e spesso velleitario è sempre stato quello di cercare di adattare i meccanismi imperfetti di questo congegno alla purezza del Principio. Ma negli ultimi anni, vuoi per gli organigrammi sofferenti (soprattutto quelli del personale amministrativo), vuoi per la congenita farraginosità che si porta con sé ogni pachidermica creatura statale, la situazione si è fatta drammatica.

Roba da nozze coi fichi secchi, filosofia che permea ormai molti palazzi di giustizia. Si procede per rattoppi, come con le buche sull’asfalto, e le conseguenze sono scontate: dibattimenti e cause fissati a distanza di anni, fascicoli che muoiono per l’asfissia della prescrizione e via discorrendo. In questo modo il Principio e il Diritto sono lesi in partenza. Perché, se si presuppone che la giustizia debba essere garantita a tutti, che cosa penseranno, ad esempio, le parti civili di un processo che finisce fuori tempo massimo con l’assoluzione pronunciata non nel merito ma grazie al meccanismo automatico dell’estinzione del reato? Che penseranno coloro che restano indagati a lungo per l’inerzia di un ufficio inquirente e alla fine vengono riconosciuti innocenti? È chiaro che un magistrato può sbagliare, ma questo è – o meglio, dovrebbe essere – un accidente. La carenza di risorse che affligge la macchina della giustizia è invece una contingenza. E questo, se possibile, è ancor più grave. Perché che un giudice cada in errore può anche non accadere. Ma è pressoché inevitabile che, avendo a disposizione solo fichi secchi, una quota non irrilevante di cause e processi vada a farsi benedire, per di più se l’obbligatorietà dell’azione penale (indiscutibile, ci mancherebbe) e la recente convinzione popolare che tutto si debba risolvere in un’aula giudiziaria alimentano la superfetazione dei faldoni.

Che fare, allora? Comportarsi da assoluti, correndo dietro a tutto perché così vuole il Principio e facendo finta di non accorgersi delle risicate risorse a disposizione? Oppure, fare una scrematura, un calcolo «cinico» sulle precedenze dei fascicoli e delle cause, dedicandosi a quelli salvabili e lasciando «morire» quelli destinati a prescrizione o ritenuti bagatellari? La prima è una concezione suprema, ineccepibile dal punto di vista teorico, ma che non fa il conto delle energie che richiede. È un po’ come il calciatore che insegue tutti i palloni, anche quelli palesemente destinati a finire fuori campo, perché ritiene giusto tentare fino all’ultimo, ma che poi nel finale di partita magari non ha più il fiato di rincorrere l’avversario. La seconda è una concezione manageriale della giustizia, fin troppo realista, che fotografa la situazione e decide cosa si può e cosa non si può, ma che allo stesso tempo sacrifica il Principio. E nasconde un’insidia: l’arbitrio.

Chi sceglie quali processi portare a termine e quali mandare davanti al plotone di esecuzione? Non può essere certo il singolo magistrato. E per questo è un bene che Tribunali e Procure del distretto bresciano abbiano introdotto dei criteri, paletti che possono sollevare giudici e pm da decisioni anche maceranti e sempre soggette a sospetti esterni. Ben vengano dunque, i protocolli e una mentalità che ancora fatica a farsi largo. Se hai a disposizione fichi secchi non puoi allestire un banchetto nuziale faraonico. Lo ripeteva il compianto procuratore di Bergamo Walter Mapelli, uno che aveva già capito tutto. Questo, purtroppo, a scapito del Diritto e del Principio. E in attesa di tempi migliori, che non possono però essere quelli di certi processi condannati alla prescrizione.

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