Oasi Hong Kong
La Cina traballa

Si possono fare lunghe analisi e ardite digressioni sulle proteste scattate a Hong Kong il 15 marzo e proseguite finora tra tentativi di compromesso e scontri violentissimi. Oppure si può ricorrere a una spiegazione di poche parole: i cittadini di Hong Kong non vogliono diventare cittadini della Cina. Tutto ovviamente affonda le radici nella complessa storia della città e dell’isola. Gli inglesi si erano presi Hong Kong nel 1842 con la Guerra dell’oppio e il Trattato di Nanchino e l’avevano tenuta come colonia fino al 1898, quando avevano firmato con la Cina un «contratto d’affitto» di 99 anni, destinato appunto a spirare nel 1997.

Nel 1984, infine, la premier inglese Margaret Thatcher e il leader cinese Deng Xiao Ping avevano provato a regolare il ritorno di Hong Kong sotto l’egida cinese con una Dichiarazione congiunta piena di acrobazie politiche e giuridiche. Hong Kong diventò con quella firma una «regione amministrativa speciale» della Cina, destinata però a godere di «un alto livello di autonomia» per altri 50 anni, cioè fino al 2047.

Tale definizione, che riecheggia la famosa frase «un Paese, due sistemi» usata dai cinesi, può voler dir tanto ma anche nulla. Certo, il sistema economico (di stampo capitalistico) e giuridico (basato sulla Common Law britannica) è rimasto invariato, come chiedevano gli inglesi. Ma il controllo politico (il governatore è scelto da un «comitato» di 1.200 persone a loro volta scelte quasi tutte dalla Cina) spetta a Pechino, come volevano appunto i cinesi. Con gli anni, e con l’avvicinarsi del fatidico 2047, le due tendenze sono entrate sempre più spesso in conflitto. In più, con il passare del tempo, Hong Kong è diventata un perno decisivo per la sfida economica, politica e tecnologica che la Cina vuole portare alla tradizionale supremazia degli Usa.

Nel febbraio di quest’anno è stata resa pubblica la strategia della cosiddetta Greater bay area, che vuol far confluire nove città della Cina continentale e due regioni amministrative speciali (Hong Kong, appunto, e Macao) in un unico distretto per l’innovazione tecnologica, i servizi finanziari, il turismo e la manifattura ad alto valore aggiunto. In poche parole, Pechino vorrebbe fondere in un’unica macchina la Borsa di Hong Kong, le start up di Shenzen, le manifatture di Guangzhou e le attrazioni di Macao e Zhuhai e farne un potente supporto al progetto della Nuova via della Seta.

Ai meno di 8 milioni di cittadini di Hong Kong tutto questo interessa poco. Vivono in una specie di oasi che è già tutto questo. Non a caso il loro reddito pro capite annuo è oltre i 40 mila dollari, contro i 7 mila dei cinesi del continente. E godono di diritti collettivi e individuali che, con i limiti detti prima, sono comunque superiori a quelli dei vicini. Per questo nel 2014 è scoppiata la Rivoluzione degli ombrelli, con le richieste di suffragio universale per eliminare il famoso comitato filo-Pechino dei 1.200 che scelgono il candidato governatore. E quest’anno è scoppiata, ancor più virulenta, la protesta contro la legge sull’estradizione che, al di là delle norme specifiche, significa soprattutto un ulteriore assorbimento nel sistema giudiziario e penale della Cina continentale.

Molti dicono che dopo queste prove, a prescindere dall’esito del braccio di ferro tra i giovani e le autorità, Hong Kong non sarà mai più la stessa, e hanno ragione. Ma se i dirigenti cinesi sono intelligenti e astuti la metà di quel che sembrano, anche per loro dovranno cambiare un po’ di cose. Le immagini degli studenti che escono tra due ali di poliziotti dal Politecnico in cui si erano asserragliati sono, in realtà, il ritratto di una sconfitta per Pechino. Il Paese che sta completando una gigantesca rimonta scientifica e tecnologica sul resto del mondo non può pensare di governare coi manganelli la propria gioventù migliore. Né può credere che l’auspicato allargarsi di una classe borghese autoctona, che di giorno in giorno impara a conoscere gli altri Paesi e le altre culture, non porti con sé richieste inedite, che non possono esaurirsi nell’acquisto frenetico di status symbol sempre più costosi. Deng Xiao Ping, l’uomo che in fondo diede l’avvio a tutto questo, soleva dire che «bisogna attraversare il fiume tastando le pietre». Ecco. Le proteste di Hong Kong dicono a Pechino che c’è una pietra instabile e che, per il bene di tutti, è il momento di fermarsi a riflettere.

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