Onorevoli tagliati
Plebiscito e vincitori

E così il nervosismo della vigilia si è dissolto di fronte ad una votazione quasi plebiscitaria: in pochi alla Camera se la sono sentita di contrastare la riforma che ha tagliato il numero dei parlamentari da 945 a 600, con relativi risparmi di stipendi, rimborsi, pensioni, ecc. Troppo popolare lo schiaffo alla Casta, al punto che i deputati grillini, veri sostenitori della riforma e dunque vincitori della giornata, hanno esposto in piazza Montecitorio un cartello in cui era scritto: «Meno deputati, più asili nido».

Lega e Fratelli d’Italia, da sempre favorevoli al taglio, hanno rinunciato a giovarsi dei maldipancia della maggioranza e hanno aggiunto i loro voti favorevoli contrariamente alle voci che li davano pronti all’astensione o all’assenteismo. Del resto, sarebbe stato un vero autogol per Salvini e Meloni non salire proprio all’ultimo momento sul carro di chi può dire: «Sono sempre stato favorevole a ridurre le poltrone». Salvini poi ha potuto aggiungere un velenoso attacco all’ex alleato: «La Lega, a differenza di qualcun altro, mantiene la parola data».

Ben più complicata la posizione del Partito democratico che nelle tre votazioni precedenti non solo ha sempre votato no, ma ha lanciato appassionati appelli per la salvezza della democrazia messa in pericolo da una «manovra peronista» da parte di chi – accusavano Marcucci, Zanda, Delrio, Ceccanti e tutti gli altri democratici- penalizza il Parlamento per poter meglio controllare il popolo con le armi della demagogia e del populismo. Ieri in aula Delrio ha dovuto sostenere esattamente il contrario e ha dichiarato di votare «convintamente» a favore della riforma, evidentemente non più di marca peronista e sudamericana. Cosa ha avuto in cambio il Pd per questo sì? Una promessa. Sia pure scritta e messa a verbale. La promessa che saranno fatti dei correttivi alla ripartizione dei seggi (con il taglio intere regioni potrebbero non essere rappresentate in Parlamento), che saranno adeguati i regolamenti parlamentari per evitare la paralisi delle commissioni, e soprattutto – questo l’obiettivo politico – che sarà varata una nuova legge elettorale. Che dovrà essere tutta proporzionale, proprio come ai tempi della Prima Repubblica. Zingaretti deve affrontare la resistenza interna di chi crede ancora al maggioritario, ma sa che col proporzionale si potrà frenare la corsa di Salvini verso la maggioranza relativa alle prossime elezioni: i sondaggi danno la Lega tuttora sopra il 30 per cento, quasi il doppio dei grillini (che continuano a scendere) e a parecchia distanza dal Pd – anche in eventuale combinazione col partito di Renzi. Quindi la riforma elettorale proporzionalistica va nell’interesse di tutti (compresa Forza Italia) meno che della Lega, che non a caso sta promuovendo un referendum per una legge maggioritaria che favorirebbe il partito maggiore.

Se il Pd sta nella condizione ansiogena di chi ha pagato in anticipo una merce che ancora deve arrivare sul banco del negozio, Renzi sta facendo i suoi conti. C’è chi sostiene che potrebbe far saltare tutto pur di impedire che il taglio dei parlamentari (che pure ha votato) diventi operativo già nella prossima legislatura con possibili conseguenze negative proprio sui partiti più piccoli come il suo. Ma siamo ancora ai sospetti.

Quel che è certo è che questa approvazione restituisce a Di Maio e al M5S una centralità che stava perdendo e alla legislatura la garanzia di durata di almeno un anno, l’equivalente dei tempi tecnici che occorre far trascorrere prima che la riforma costituzionale superi l’eventuale referendum confermativo e arrivi a diventare operativa.

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