Papa Giovanni, le missioni
e la scoperta dell’altro

«Se non avessi vissuto l’esperienza della missione in Bolivia, non riuscirei a resistere», mi confidava qualche tempo fa un amico prete, che ogni giorno accoglie centinaia di persone provenienti da Paesi diversi, con percorsi e storie difficili, che chiedono di essere ascoltate, riconosciute e apprezzate. Mi è subito venuto in mente Papa Giovanni. Se egli ha potuto predicare e praticare «quella carità che è il segno distintivo del cristiano, che rifugge da ogni discriminazione sociale linguistica e razziale, che allarga le braccia e il cuore a tutti, fratelli e nemici» – come scrive nell’Enciclica Princeps Pastorum del 28 novembre1959 –, è anche grazie alla sua intensa esperienza missionaria.

Nella stessa Enciclica, promulgata per celebrare il 40° anniversario di un altro documento fondamentale per le missioni, la Maximum illud di Benedetto XV, Roncalli accenna con memoria grata alle sue prime esperienze missionarie: dal 1921 al 1925 aveva lavorato come presidente dell’Opera per la propagazione della fede, definita «il respiro della mia anima e della mia vita». «Per essa – scrive nel Giornale dell’anima nel gennaio 1924 – tutto e sempre: testa, cuore, parole, penna, preghiere, fatiche, sacrifici, di giorno, e di notte, a Roma e fuori, ancora lo dico, tutto e sempre». Roncalli recepisce in profondità la nuova impostazione della Maximum illud: il Vangelo non è patrimonio di un’unica cultura; è quindi necessario che il missionario si integri il più possibile nel luogo in cui è inviato, imparando la lingua, gli usi e i costumi di quel Paese, respingendo ogni nazionalismo e favorendo la crescita del clero e della Chiesa locale.

Il futuro Papa si getta con entusiasmo nel nuovo incarico, viaggiando molto per l’Italia. È l’occasione per conoscere regioni della Penisola fino allora poco note, per aprire la prima di una lunga serie di finestre su realtà sconosciute. L’incontro con l’altro gli dischiude orizzonti universali, contribuisce ad aprire la sua mente e ad allargare il suo cuore. Ne conserverà a lungo il ricordo, «la gioia saporosa e serena dello spirito di quei primi anni in cui non ero occupato che a lavorare per l’azione missionaria. Ciò mi permise visioni e contatti con anime e con ambienti i più vari e interessanti, e fu introduzione a una conoscenza più profonda di ciò che concerne orientazioni e speranze per l’affermazione del Regno di Cristo nel mondo» (scritto del 16 aprile 1954).

Un simile sguardo diventerà poi consuetudine in Bulgaria e Turchia, colorando la descrizione delle piccole chiese arroccate sui monti, il viaggio sul monte Athos, le notti turche con i lumini dei pescherecci sul Bosforo. Il paesaggio lo induce a riflessioni sul presente, sull’essere umano e sui popoli in cammino, suscitando simpatia e stima per l’altro. Forse è proprio questa la chiave per comprendere come la sensibilità missionaria abbia impresso una svolta al pontificato di Roncalli: il rispetto per il diverso, per le altre culture e civiltà nasce dentro un’esperienza missionaria vissuta come incontro e dialogo con il prossimo.

A chi vorrebbe subordinare l’impegno missionario al primato dell’evangelizzazione «in casa», Roncalli obietta: «Ancorché ci sia tanto da fare qui, sta pur bene levare lo sguardo al mondo vastissimo che ancora vive fra le tenebre e le ombre della morte. Il racconto di ciò che fanno i missionari e le suore in quei Paesi è grande incoraggiamento al nostro lavoro in patria» (appunto del 23 novembre 1919). Anzi, l’impegno missionario è condizione per mantenere e dare slancio alla fede in casa nostra: «Portare la luce e l’amore di Cristo a coloro che ancora non lo conoscono, significa dare nuova linfa di vita alle diocesi di antica tradizione cristiana e salvare forse tante parrocchie che languiscono nell’inedia» (discorso del 26 aprile 1959).

Quanto allo stile missionario che deve animare i cristiani ovunque essi si trovino, prendendo a prestito una citazione di san Giovanni Crisostomo, Papa Giovanni scrive: «Ogni cristiano deve essere testimone della verità in cui crede e della grazia che lo ha trasformato. Il Cristo ci ha lasciati sulla terra affinché […] fossimo semente e portassimo frutti numerosi. Non sarebbe neppur necessario esporre la dottrina, se la nostra vita fosse a tal punto irradiante; non sarebbe necessario ricorrere alle parole, se le nostre opere dessero una tale testimonianza. Non ci sarebbe più alcun pagano, se ci comportassimo da veri cristiani» (Princeps Pastorum). Questa è anche la prospettiva del Concilio Vaticano II, aperto da Giovanni XXIII 57 anni fa, che ha rinnovato e rilanciato l’azione missionaria della Chiesa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA