Parlamento
riforma debole

Quando una riforma costituzionale è approvata a maggioranza così ampia (superiore ai 2/3 nella Camera dei deputati), ci sarebbe in teoria da sentirsi rassicurati, perché si dovrebbe parlare di una revisione ampiamente condivisa, anziché, come spesso è accaduto, frutto della forzatura di maggioranze di governo. La riduzione del numero dei parlamentari ha superato l’ultimo passaggio alla Camera dei Deputati con 553 voti a favore (su 569 presenti). Paradossalmente questo ampio consenso è ultimamente segno piuttosto di una debolezza del Parlamento, al cospetto della pressione condizionante della cosiddetta antipolitica (che spinge per la riduzione dei privilegi e del peso della «casta») o dei vincoli finanziari (com’è accaduto per la legge costituzionale 1/2012 sull’equilibrio, o «pareggio», del bilancio, approvata a larghissima maggioranza); frutto di un timore diffuso delle reazioni e di un avvertito difetto di legittimazione più che di un largo convincimento.

E infatti al Senato la maggioranza a favore di questa riforma è stata inferiore ai due terzi, ciò che tiene aperta la possibilità di un referendum confermativo che, presumibilmente, potrebbe essere richiesto da un fronte trasversale di parlamentari (così che nessuna forza politica ne risponda direttamente). Basta all’uopo un quinto dei membri di una Camera.

La riforma, a dire il vero, non entusiasma. Taglia il numero dei parlamentari senza porre rimedio alle cause profonde della crisi che attraversa la mediazione parlamentare. Per qualcuno sembra addirittura che la riduzione sia un bene in quanto tale. Per costoro, qualsiasi taglio sarà sempre insufficiente. La riforma è debole. Se sottintendesse il retro-pensiero dell’inutilità del Parlamento sarebbe pericolosa. Se mirasse al rilancio della centralità delle Camere mancherebbe il bersaglio.

La fragilità del Parlamento dipende da altri fattori, più che dalla sua sovrabbondanza. Taccio sull’attuale legge elettorale, priva di un senso comprensibile. Penso ai partiti, cui è affidata l’intermediazione tra eletti ed elettori, già nella composizione delle liste, e che non sono più - e da tempo - un vettore riconosciuto e frequentato di espressione vitale dei cittadini e non sono mai stati uno strumento di partecipazione democratica.

La democratizzazione dei partiti servirebbe a riallacciare un ponte tra i cittadini elettori e le istituzioni rappresentative. Ma soprattutto urgerebbe una riflessione sull’arricchimento necessario del principio rappresentativo di cui le due Camere dovrebbero essere espressione differenziata. Personalmente sono convinto che il luogo privilegiato della partecipazione democratica di base sia oggi l’ente locale (i Comuni anzitutto) e che, pertanto, la seconda Camera andrebbe ripensata perché porti al centro la voce delle autonomie territoriali, che sono animate da fermenti di rinnovata vivacità civica.

Per questo, la riduzione del numero dei parlamentari è in sé una riforma almeno incompleta. Ha il merito di ridurre il costo della politica, ma il demerito di lanciare segnali ambigui. Al contempo, non mi sento di unirmi al coro di chi vi vede un attentato alla democrazia. Questa enfasi sul ruolo, pressoché esclusivo, del Parlamento è debitrice di una concezione pre-costituzionale della rappresentanza. Nella nostra Costituzione i canali della partecipazione del popolo sovrano alla vita politica, economica e sociale del Paese sono plurali. Il Parlamento non è, né nel testo costituzionale e tanto meno nella realtà istituzionale, il detentore in via esclusiva di un ipotetico (e inesistente) volere singolare del popolo sovrano. Per rilanciare il ruolo, comunque fondamentale, del Parlamento occorrerebbe piuttosto ripensare i luoghi vitali della partecipazione politica (a cominciare dalle città) e, conseguentemente, gli interlocutori e le espressioni istituzionali della stessa. Questione di cui non si occupa la riforma, ma di cui non si occupano nemmeno coloro che semplicemente la avversano.

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