Parole e segni
a custodia del bene

Fino a poche settimane fa l’esordio abituale delle nostre telefonate era: «Dove sei?». Ora la parola d’ordine è: «Come stai?». Non è in dubbio lo spazio nel quale ci troviamo, ma le condizioni nelle quali lo abitiamo. Sono giorni surreali, dove tutte le consuetudini e i riferimenti simbolici vengono sopraffatti dall’emergenza di contenere una minaccia che, non mostrandosi in maniera leale, rende tutti potenziali nemici. L’inquietudine fa da cornice a gesti che, all’inizio della pandemia, rimanevano celati e quando trapelavano sembravano incredibili, ma ora hanno giustamente guadagnato la ribalta. Pensiamo all’impegno con il quale medici, infermieri e operatori sanitari presidiano, stremati, il fronte di questa battaglia. Per indicare il loro operato è tornato in auge un termine scomodo: quello di sacrificio. Come nominare diversamente le scelte di tante donne e di tanti uomini che, non solo negli ospedali, consacrano la loro vita occupandosi di altri fino a dimenticarsi di sé? In forma almeno indiretta, tutti abbiamo raccolto le testimonianze struggenti di nuclei familiari, nei quali chi si è prodigato per alleviare le sofferenze dei congiunti è arrivato a condividerne la sorte.

«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Giovanni 15,13). Le parole di Gesù nella sera dell’addio potrebbero valere come didascalia al murale sul nostro ospedale, che è ormai diventato un’icona. Anche quando saltano gli ormeggi e veniamo travolti da impetuosi flutti, l’unico atteggiamento che garantisce umanità al nostro travaglio è la dedizione. Fatta di cure che non si limitano ai medicinali, ma si concretano di carezze e magari di tablet, avvicinati al capezzale per offrire la prossimità dei volti più cari.

La memoria liturgica del Giovedì Santo propone di cogliere dentro questi slanci non soltanto l’istinto di sopravvivenza, ma la verità più intima di Dio nei nostri confronti. La manifestazione autentica della sua potenza, infatti, è nel gesto del grembiule indossato per lavare i piedi dei discepoli riluttanti. Questa sera i credenti non potranno comunicarsi all’Eucaristia, ma mai come quest’anno è dato loro di ammirare e rendersi protagonisti di gesti di generosità di cui il Vangelo ha bisogno per rendersi credibile. Secondo Gesù, il giudizio definitivo sulla storia sarà legato proprio a questo tipo di miracoli: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…, ero malato e mi avete visitato…» (cfr. Matteo 25,31-46).

Il dolore di chi sta vivendo la separazione repentina dai propri cari è spesso solcato dallo strazio di non aver avuto la possibilità di un accompagnamento e di un saluto. Perché il morire sia dignitoso, ha bisogno di segni e parole che confermino il legame proprio quando sta per spezzarsi. Lo ha fatto anche Gesù in questo giorno con i suoi, ribadendo la sua volontà di essere tutto per noi («corpo e sangue») e lasciando in eredità un’alleanza che non è riservata a pochi intimi, ma è destinata a tutti coloro che, nei fatti, dimostrano di condividere la sua passione per l’uomo.

Quotidianamente i nostri occhi si sono riempiti di lacrime, perché abbiamo perduto figure esemplari, vere e proprie colonne delle nostre comunità. Come scrive la poetessa W. Szymborska, se è vero che: «La morte a nessuno può sottrarre il tempo raggiunto», è nostro compito custodire la memoria del bene che abbiamo ricevuto da loro e rendere feconda una tradizione di cui andiamo fieri. A questo sguardo affettuoso che trattiene il passato, nel gesto dell’Eucaristia Gesù di Nazareth dischiude la prospettiva di un futuro nel quale le nostre amicizie si ricostituiranno in Lui: «Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio» (Matteo 26,29).

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