Pd, se l’emergenza
diventa strategia

Non s’è mai vista una manovra finanziaria votata fra plebi festanti e corporazioni plaudenti. Dunque, la legge di Bilancio andrà incontro al Vietnam parlamentare, ma si farà perché si deve fare. In ogni caso il mandato era evitare l’aumento dell’Iva e questo è avvenuto. Nel frattempo a metà mese c’è l’assemblea nazionale del Pd a Bologna, a fine gennaio il voto in Emilia-Romagna e in primavera si dovranno scegliere decine di manager a capo delle maggiori società. In questo perimetro e in questo arco di tempo il governo si gioca il proprio futuro. Molto dipenderà dall’impatto della Manovra sulle tasche degli italiani, che anticipa le elezioni in uno degli ultimi bastioni rossi (la destra controlla 12 Regioni su 20), il Palazzo d’Inverno italiano che il centrosinistra non può permettersi di perdere.

Una questione vitale. La domanda, oggi, è questa: il partito di Zingaretti, in Emilia-Romagna, limiterà il campo al focus locale, cioè al solo sostegno del presidente Bonaccini, o ne farà una competizione totale, in chiave ideologica sull’asse sinistra-destra, secondo la formula «la casa brucia»? Nell’era della comunicazione che assorbe tutto il resto bisogna raccontarla bene, possibilmente meglio della narrazione in Umbria.

Il disastro grillino (in due anni i Cinquestelle hanno perso il 75% dei voti, scivolone mai avvenuto nella storia repubblicana) in quella piccola Regione, contrapposto ai confini estremi raggiunti dalla capacità espansiva di Salvini, è diventato paradigma nazionale e sta cambiando lo schema governo-alleati. Di Maio, sempre più lontano da Conte e dai propri gruppi parlamentari, e con lo stop alle prove di alleanze territoriali con i dem, scarica sul governo i limiti di un movimento che, nell’incontro tra populismo e realtà, sceglie l’incursione corsara lavorando sugli spazi residuali. Un composto biodegradabile, secondo la definizione di Grillo.

La transizione dal movimentismo antisistema a partito di governo, un’occasione per maturare, non sta riuscendo: senza la ragione sociale del «vaffa», l’orizzonte di successo trasformatosi in illusione e in flop, la spinta propulsiva s’è esaurita. Le stelle cadenti sono funamboli dalla personalità scissa: c’è il liberi tutti, ognuno dice quel che vuole, oggi è così domani l’opposto. Anomali progressisti a loro insaputa e dalla leadership di destra, non si capisce se abbiano un pensiero politico organizzato e, nel caso, quale sia e con quale linearità lo conducano. C’è chi s’è chiesto se un partito personale e proprietario, qual è il 5MS, possa esistere senza una personalità e possa crescere con la zavorra del maoismo digitale. Quello della leadership è una questione essenziale, tanto più che dall’altra parte c’è un capo naturale, Salvini, che ha colonizzato il centrodestra trasformandolo in destra-centro.

C’è qualcosa di illeggibile nel centrosinistra e può darsi che sia il prezzo di una rifondazione in corso dei tre lati del sistema politico. Conte, espresso dai grillini, ora gioca in autonomia, semmai a lato del Pd: pur crescendo in peso politico, è ancora lontano dall’essere il Bearzot della situazione. Renzi è inafferrabile nei suoi disegni, ma intanto fa shopping parlamentare e nelle province profonde. Zingaretti, al di là del garbo personale, è l’anti-leader di suo e anche di fatto, avendo separato il ruolo del segretario da quello del candidato premier. L’uomo è in cerca di una nuova legittimazione, tuttavia la pax zingarettiana è fragile, governata da un ceto politico romano di notabili. Il Pd, tre scissioni in 12 anni di vita, è chiamato a ripensare il proprio progetto, ma l’assemblea di Bologna o l’idea di un nuovo congresso sarà l’occasione di un confronto di idee o una nuova resa dei conti, il ritorno del sempre uguale?

I dem sono passati da un esecutivo nato per evitare i «pieni poteri» a Salvini all’ingegneria genetica di un nuovo centrosinistra, ma non si coglie quale sia l’identità del partito rispetto ai principali temi in agenda: sicurezza, migranti, Libia, fisco, lavoro. Con oscillazioni in cui si scorgono talvolta subalternità ai grillini (riduzione del numero dei parlamentari), a Renzi, allo stesso Salvini. A parte l’unità alla chiamata antidestra, non si notano convinzioni proprie e se prima litigavano su Renzi, ora litigano con Renzi. La faglia divisiva delle alleanze (proporzionale, ma quale, o maggioritario?) accompagnerà a lungo i tormenti dem e sarà parte della nuova architettura di schieramento e del campo largo del centrosinistra: fino a che punto sia da inseguire e da gestire un accordo tra forze alternative, figlio di un’emergenza, promosso a strategia per il futuro.

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