Pensione a Karadzic
Offesa alle vittime

È un caso scuola di legalità che non coincide con la giustizia. Radovan Karadzic, l’ex leader politico dei serbi di Bosnia, ha ottenuto ufficialmente la pensione da parte delle autorità della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina (l’altra è la Federazione croato-musulmana) della quale Karadzic fu presidente dal 1992 al 1996, durante gli anni tragici del conflitto. Karadzic, 73 anni, ha versato contributi per 27 anni: presentò la domanda di pensionamento alla fine del 2016.

È stata esaminata e accettata dai responsabili del Fondo pensionistico della Republika Srpska. La richiesta rispetta i requisiti delle norme previdenziali serbo-bosniache: nulla da eccepire quindi da un punto di vista tecnico e legale. Ma dal punto di vista della giustizia, il conferimento dell’assegno pensionistico è un’offesa alle vittime del conflitto. In quei 27 anni di «lavoro» è contemplata infatti anche l’attività criminale svolta da Karadzic, psichiatra con ambizioni da poeta e letterato, alla guida delle truppe insieme al suo sodale, il generale Ratko Mladic. Per questo «lavoro» l’ex presidente dei serbi di Bosnia è stato condannato in primo grado per crimini di guerra a 40 anni di reclusione dal Tribunale penale internazionale dell’Aja. La pensione viene quindi ritirata dalla moglie Lilijana Zelen Karadzic.

Tra i crimini per i quali il nuovo pensionato è stato condannato, ci sono il genocidio di Srebrenica (nel luglio 1995 in due giorni furono trucidati 8 mila bosgnacchi, bosniaci musulmani giovani o adulti) e l’assedio di Sarajevo (il più lungo della storia moderna e contemporanea, durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 provocando 12 mila morti e 60 mila feriti).

È vergognoso che vengano conteggiati come lavoro ordinario i crimini di cui Karadzic fu il mandante politico, con la copertura di Slobodan Milosevic da Belgrado e dei loro alleati internazionali. Una beffa dolorosissima per quei bosniaci che non vedranno mai la pensione perché hanno dovuto interrompere la loro attività professionale negli anni della guerra e non hanno più trovato lavoro. Ma anche per chi riceve assegni da fame (ed è la maggioranza fra i pensionati della Bosnia) non superiori ai 150 euro mensili.

La «vicenda previdenziale» di Karadzic si inserisce in un quadro già teso. A ottobre i bosniaci sono stati chiamati al voto per rinnovare la contorta e pletorica architettura istituzionale del Paese: hanno eletto quattro presidenti, due vicepresidenti, cinque assemblee parlamentari e dieci cantonali. Per il governo centrale gli elettori hanno votato per le due camere del Parlamento e le tre presidenze (croata, bosniaca e serba che ruotano ogni 8 mesi). Nella stessa giornata si è votato anche per decidere i vertici delle due entità che compongono la Repubblica (i deputati, il presidente e il suo vice). L’affermazione dei partiti nazionalisti è un campanello d’allarme che l’Europa occidentale farebbe bene a non sottovalutare. Anche perché intanto nel vicino Kosovo la tensione è ancora più alta: si sta studiando uno scambio di territori con la Serbia affinché Belgrado riconosca la regione a maggioranza albanese come Stato autonomo.

Un’altra questione, non trattata dai nostri media nazionali, riguarda le migrazioni in questi territori. La rotta balcanica non è stata affatto chiusa dall’accordo Ue-Turchia (per il quale Ankara ha ricevuto 6 miliardi di euro): migliaia di persone risalgono ancora i Balcani cercando di raggiungere l’Europa centrale affidandosi a trafficanti. Anche la Bosnia è coinvolta da questo transito: migliaia di migranti sono ammassati nella città di Bihac da dove cercano di raggiungere la Croazia e da lì il centro del Vecchio continente. Sperando di trovare una casa, un lavoro e, in futuro, una meritata pensione.

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