Politica estera
I conti salati dei pasticci

Il 2019 doveva essere l’anno di grazia. Un anno «bellissimo», aveva pronosticato il premier Conte con puntuale lungimiranza. Di Maio lo aveva preceduto, parlando di crescita e di nuovo sviluppo industriale. Magia delle parole ben confezionate. La realtà, invece, è ruvida: siamo in braghe di tela, rischiamo la recessione tecnica, e ci mancava solo la rottura diplomatica Francia-Italia, un fatto senza precedenti nella storia repubblicana. Due nazioni amiche, cresciute insieme: un dialogo competitivo, non sempre facile, in ogni caso dentro una prospettiva comune. Lo strappo, nel Paese dei due grandi fratelli (debito pubblico e spread) e del cambiamento felpastellato, ha molti padri, visto che il nostro capo del governo insiste sulla collegialità dell’esecutivo, comunque determinato dall’irresponsabilità istituzionale del ministro Di Maio dopo il blitz in cui ha incontrato i capi della frangia più violenta dei gilet gialli.

Tutto ormai, e ovunque, risponde alla logica elettorale del voto di maggio. E se non sempre il comportamento di Parigi è stato ineccepibile nei nostri confronti, questa volta l’Italia (perché di questa dimensione si tratta) se l’è andata a cercare, praticando uno sgarbo studiato e pianificato. Una condotta antifrancese inaugurata con la ruspa da Salvini che ora s’intesta una linea più istituzionale smarcandosi da Di Maio, a sua volta impegnato a strappare la maglia dell’anti Macron in Europa al socio del contratto di governo. Una questione di cucina politica molto spicciola, non di grandi orizzonti strategici. Il conto, però, lo paga l’Italia, e lo si vede dall’indiscrezione che Air France-Klm si sfilerebbe dal salvataggio di Alitalia.

La politica estera nell’anno primo del sovranismo sta diventando una maionese impazzita, un vagare senza bussola. Un po’ Peron, un po’ Che Guevara e il nanismo internazionale è servito. Siamo diventati i campioni dell’isolazionismo mediterraneo, costruendo a tavolino i nemici perfetti, rastrellando improbabili amicizie, ingaggiando un corpo a corpo, senza un’adeguata consapevolezza dei rapporti di forza, delle ricadute interne. La politica estera non è affare per apprendisti stregoni o l’ora di ricreazione per chi mischia improvvisazione e provocazione. L’Italia è cresciuta con grande equilibrio quando la politica estera dominava la politica interna: uno stile collaborativo e solidale che ha tenuto, che ha riunito sui fondamentali le grandi forze politiche, determinando percorsi positivi per il Sistema Paese.

In una fase di sbandamento collettivo, nel momento in cui l’Italia ha bisogno di essere aiutata, ecco che i nuovi padroni del vapore girano il mondo in cerca di guai. Un governo che litiga su tutto e con tutti. Un revisionismo diplomatico, di cui l’incursione di Di Maio è solo l’ultimo schiaffo rispedito al mittente, che accumula contraddizioni e giri a vuoto. Una volta con Putin: ricordate quando Salvini sosteneva di trovarsi meglio a Mosca che a Bruxelles? L’altra volta con Trump. Raramente dalla parte giusta. Si flirta con i Paesi di Visegrad, salvo essere respinti con perdite: gli immigrati ve li tenete voi e i debiti che avete sono vostri. Insomma, ognuno sovranista a casa propria e non si pensi a metter mano al portafogli collettivo. In un paio di giorni abbiamo infilato una doppietta memorabile. Sul Venezuela, rompendo la solidarietà atlantica, siamo rimasti nella solitudine dell’equidistanza che sotto il mantello della neutralità copre un malcelato sostegno a Maduro. L’intento di non interferire è diventato, nella terra di Macron, un esplicito sostegno ad un variegato e discusso movimento che – almeno in alcune sue componenti – riunisce violenza e posizioni antisistema. «Gilet gialli, non mollate!», incitava l’appello di Di Maio il 7 gennaio scorso, interpretato da Parigi come un’incitazione alla rivolta in un Paese vicino e amico. Una catena di gesti ostili che non prende in considerazione lo spessore dei dossier bilaterali aperti, bisognosi di diplomazia: l’infinito pasticcio della Tav, la stabilizzazione del Mediterraneo e la ricostruzione della Libia, la questione migranti, l’integrazione europea e tutta l’agenda economica.

Mentre le previsioni di crescita dell’Italia sono state ridotte allo 0,2%, il che significa un Paese fermo, e mentre la Commissione europea ci ricorda che il rallentamento è attribuito in primo luogo «all’incertezza relativa alla linea del governo», dovremmo porci una domanda di buon senso: fin dove si possono spingere i partiti di governo, su quale punto della realtà intendono atterrare dopo il viaggio nel Paese delle meraviglie? Cosa possono pensare i nostri commercianti all’idea di un trasloco in Italia dei gilet gialli che bruciano auto e spaccano vetrine? Perché alla fine si torna sempre al punto di partenza: quale idea si abbia della società e della convivenza civile.

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