Politiche economiche
La voglia di Stato

La Camera sonnecchiava quando martedì 26 novembre si è aperta la discussione generale sul decreto che proroga fino alla fine dell’anno prossimo lo stato di emergenza nelle zone dell’Italia Centrale colpite dal sisma. C’erano, nell’emiciclo di Montecitorio, una decina di deputati, forse venti in qualche momento di pienone. Consueto triste spettacolo, e a poco vale ricordare che ieri non erano previste votazioni d’aula e che nelle stesse ore qualche commissione stava lavorando. Del resto, il Parlamento è sempre meno protagonista del dibattito politico che si concentra sul governo e sui leader di partito, meno di dieci.

E proprio il governo è alle prese con molte spinose questioni di politica economica: quale più e quale meno, tutte ancora distanti da decisioni risolutive. A cominciare dall’Alitalia: il presidente del Consiglio ha ammesso che «non c’è adesso una soluzione di mercato a portata di mano» perché il consorzio che si basava sui soldi di Ferrovie e Atlantia si è liquefatto, e adesso non si sa a quale santo appellarsi: in sostanza si va verso l’ennesima proroga della gestione commissariale con l’ennesimo prestito ponte sperando che Lufthansa si rifaccia viva. Insomma la ex «compagnia di bandiera» continua la sua attività in perdita con i soldi dei contribuenti (finora circa 10 miliardi) senza che ci sia alle viste la fine di questa storia di un fallimento che nessun governo vuole dichiarare.

Nel frattempo il ministro dello Sviluppo economico Patuanelli torna ad evocare il fantasma dell’Iri, lo strumento principe dello Stato imprenditore ai tempi del boom economico, smantellato pezzo a pezzo quando si trattò di privatizzare (svendere, dice più d’uno) le varie aziende pubbliche. Il M5S non ha mai nascosto la propria propensione alla nazionalizzazione, lo aveva proposto anche per le autostrade quando voleva ritirare la concessione ad Atlantia per via del crollo del ponte Morandi. E su questa strada Di Maio incontra la Cgil: «Finalmente!» ha infatti esclamato Landini auspicando che ci si decida a nazionalizzare anche l’acciaio attraverso una agenzia che gestisca «il rilancio produttivo dell’Italia».

E questo ci porta al tema Ilva che negli ultimi giorni sembra meno dibattuto, forse perché si è capito che le parti stanno davvero lavorando ad un accordo che prevederà lo scudo penale per Mittal (ma lo accetteranno i senatori grillini amici dell’ex ministra Barbara Lezzi e determinanti per la maggioranza a Palazzo Madama?) oltre ad un certo numero di esuberi, forse 2.500, e ad una diminuzione del canone di affitto che la multinazionale franco-indiana paga allo Stato italiano prima dell’acquisto. Il pericolo maggiore, cioè la chiusura, sembra scongiurato ma occorre augurarsi che a Palazzo Chigi sappiano trattare risolutamente con gli indiani. Anche nel caso dell’ex Ilva si ipotizza un coinvolgimento di qualche mano pubblica: se non la Cassa depositi e prestiti a causa dello statuto che lo impedirebbe, almeno di Invitalia, l’agenzia nazionale che serve ad attrarre investitori stranieri, evocata anche nel caso di Alitalia.

Sullo sfondo la manovra economica con le mini-tasse previste dal testo del Tesoro che via via vanno evaporando o ridimensionandosi (da ultimo quella sulle auto aziendali: Conte ha assicurato che non si danneggerà un «comparto in difficoltà»). E infine la polemica sul Mes, la nuova versione del fondo europeo Salva-Stati: negoziato e pre-firmato da Conte e Tria ai tempi del governo giallo-verde, è disconosciuto dagli allora vicepremier Di Maio e Salvini che lo considerano (ora) come un cappio alla gola degli italiani. Risultato: a difenderlo rimangono solo Pd e renziani che pure a suo tempo, quando stavano all’opposizione, lo criticavano chiedendo anzi a grillini e leghisti di battersi a Bruxelles per ottenere delle modifiche più favorevoli all’Italia. Un gioco di ruoli, in definitiva.

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