Poveri e salute
Il monito del Papa

Domenica Papa Francesco – nella Giornata mondiale dei poveri – ha ricordato come il grido di dolore degli indigenti sia sempre più alto e forte. Ma sempre meno ascoltato. A raccogliere quel grido inascoltato ha pensato ancora una volta lo stesso Pontefice, il quale ha voluto che fosse gestita – per una settimana – una speciale accoglienza sanitaria dedicata ai poveri, che non possono permettersi il pagamento di cure mediche. All’iniziativa hanno aderito molti addetti alla sanità pubblica e privata (medici, infermieri e altro personale sanitario).

Tutti volontari che presteranno gratuitamente la loro opera. La scelta di adoperarsi per la cura della salute umana ha un indubbio valore etico. Ed assume, inoltre, un significato particolare in un Paese nel quale il soccorso ai malati è stato storicamente gestito, per millenni, dalle associazioni caritative. Non vi è chi non sappia che gli istituti di ricovero per malati (dai cronicari del medioevo alle strutture di tipo ospedaliero dell’epoca moderna) erano in grandissima parte «opere pie», nate ed erette in virtù di lasciti di privati benefattori, ed erano gestiti da istituti religiosi con risorse finanziarie di origine privata.

In Italia, nei primi decenni unitari, quello che allora veniva definito il «patrimonio del povero» ascendeva a circa un quinto del bilancio dello Stato. Tant’è che fino alla fine del XIX Secolo le spese per assistenza e beneficenza raramente superavano l’1% del totale del bilancio statale. La sanità era funzione caritativa e, sotto il profilo giuridico, veniva indicata come una funzione di «polizia preventiva» (il potere pubblico doveva assicurare che non si diffondessero malattie epidemiche e intervenire prevalentemente per prevenirle). Lo Stato, in ragione della ricchezza patrimoniale delle istituzioni di beneficenza, non si occupava direttamente di sanità, limitandosi a una funzione di controllo esercitata dal ministero dell’Interno, nel quale nel 1888 venne istituita un’apposita Direzione generale. Il quadro di riferimento – sociale, prima ancora che giuridico – mutò in modo deciso soltanto con l’avvento della democrazia repubblicana. Nella nostra Costituzione, infatti, l’articolo 32 tutela la salute dei cittadini, dandole il carattere di un diritto «fondamentale dell’individuo» e nel contempo di «interesse della collettività». La salute, dunque, come diritto di tutti, garantito dallo Stato anche attraverso «cure gratuite agli indigenti». La sanità diventa una funzione pubblica, che può naturalmente essere gestita anche da soggetti privati, in forme controllate dallo Stato.

I passi successivi sono stati scanditi da leggi che hanno dato alle amministrazioni pubbliche un ruolo crescente nella gestione della salute dei cittadini. Nel 1958 fu istituito il ministero della Sanità, nel 1968 la legge Mariotti trasformò in enti pubblici gli ospedali, nel 1978 nacque il Sistema sanitario nazionale. Un modello molto innovativo per l’epoca, che poneva la funzione «salute» al centro di meccanismi nei quali amministrazioni pubbliche e soggetti privati concorrevano a tutelare tutti i cittadini. Malauguratamente (con limitate, anche se lodevolissime, eccezioni) il funzionamento della grande riforma – al centro del quale erano poste le Regioni – è stato largamente carente. Inefficienze e sprechi si sono moltiplicati e aggravati, pesando sempre più sul bilancio dello Stato, senza che in cambio vi fossero miglioramenti nella qualità dei servizi. Per non parlare dei numerosi casi di malaffare e di vergognose ruberie. I primi a pagarne le spese sono stati i meno abbienti, che non possono permettersi di accedere a forme private, o assicurative, di tutela della salute. La cura dei malati poveri è una delle priorità che una società democratica dovrebbe garantire. Proprio di fronte a tale situazione l’iniziativa di Papa Francesco diventa un monito per i pubblici poteri. Sovente poco attenti alle ragioni degli «esclusi».

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