Premier politico
ultima chiamata

Nelle intenzioni di Sergio Mattarella quella di oggi è la giornata decisiva per risolvere in un modo o in un altro la crisi di governo: stasera o al massimo domani mattina il capo dello Stato è intenzionato ad affidare comunque l’incarico per la formazione di un nuovo esecutivo. O sarà un incarico politico affidato a qualcuno che presenti al Quirinale un accordo «chiaro» sul suo nome e su una maggioranza di programma. Oppure sarà un incarico «tecnico» per formare un esecutivo che abbia il solo compito di traghettare il Paese fino alle elezioni evitando che la campagna elettorale sia gestita dal governo giallo-verde, ossia – per essere espliciti – per impedire a Matteo Salvini di guidare la macchina del Viminale nei sessanta delicati giorni che precedono l’apertura delle urne.

A quanto risulta, Mattarella dovrebbe incaricare Giuseppe Conte a nome di una maggioranza composta da Movimento Cinque Stelle, Partito democratico e Leu. Persino Trump si è fatto vivo con un tweet per augurarsi che «Giuseppe resti primo ministro». Su questo piano il lavoro ieri sera sembrava essere arrivato ad un buon punto dopo una giornata trascorsa, come si dice, sulle montagne russe con improvvisi stop e riavvii.

Quando ormai Zingaretti si era rassegnato ad accettare Conte come presidente del Consiglio e successore di se stesso alla guida di un governo opposto al precedente, è scoppiata la «grana» della collocazione di Di Maio. Sulle prime il capo del M5S voleva diventare ministro degli Interni al posto di Salvini mantenendo la carica di vicepremier. Ma qui il Pd si è impuntato: «Allora è meglio votare», «Di Maio controlli le sue ambizioni personali» dicevano a via del Nazareno persino i renziani rimasti a Roma a controllare a nome del loro leader che Zingaretti e Gentiloni non facciano scherzi. Se anche loro si spazientivano, qualcosa era sicuramente accaduto. L’impasse è stato superato solo quando è stato Conte in persona ad assicurare che Di Maio non chiede di diventare ministro degli Interni. Ma pretende comunque di rimanere il numero due del governo. Anche questa è una condizione che il Pd non è (non sembra) disposto ad accettare: Luigino può rimanere al governo in un ministero di peso (anche se non doppio come adesso) ma se Conte, espressione dei 5 Stelle, è il numero uno, allora – dicono al Nazareno – il suo secondo deve essere un democratico. Si parla di Andrea Orlando o di Dario Franceschini, e quest’ultimo può rivendicare di essere stato il primo, in tempi non sospetti, a dire che coi grillini bisognava trovare un accordo (e si prese allora gli strali acuminati dei renziani).

Nel frattempo i capigruppo dei due partiti si sono riuniti per parlare di programma: non risulta che abbiano scritto alcunché e pare che siano rimasti abbastanza sul generico in modo tale da concludere l’incontro definendolo «profittevole» (Delrio, Pd) e «positivo» (Patuanelli, M5S). In realtà tutti sanno che le distanze sui programmi restano rilevantissime. Ci ha pensato ieri Toninelli a ricordarlo rimettendo sul tavolo le concessioni autostradali che i grillini vorrebbero togliere ai gruppi privati per ri-nazionalizzarle mentre il Pd, guarda caso, è stato a suo tempo tra i più convinti privatizzatori della rete autostradale. L’impressione è che su questi particolari non ci si voglia granché fermare. Poi si vedrà. Di Maio e Zingaretti hanno piuttosto le loro partite interne da risolvere. Il segretario Pd adesso si trova un partito abbastanza compatto (con l’esclusione di Carlo Calenda, contrarissimo all’accordo) ma deve ancora concludere la spartizione delle poltrone, cosa sicuramente faticosa. Di Maio deve ancora convincere i militanti contrari all’accordo con il partito «di Bibbiano» tanto che c’è chi minaccia «dimissioni in blocco» per «ritrovare lo spirito del movimento». Sarà anche per questo che l’attuale vicepremier si è ben guardato dall’andare ieri sera all’assemblea dei parlamentari rimanendo rinserrato a Palazzo Chigi con i suoi fedelissimi.

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