Promesse elettorali
e dura realtà

Il governo Conte arriva al quarto mese di vita. Un percorso fin qui largamente sostenuto - a guardare i sondaggi - dall’opinione pubblica. Eppure non mancherebbero ragioni per cominciare a interrogarsi sul preoccupante iato tra le promesse elettorali, consegnate a un’inedita forma di accordo politico («il contratto»), e la loro realizzazione. O, a dir meglio, alla praticabilità di scelte che continuano a essere sbandierate, senza nessuna incertezza, come praticabili. Emblematica, e contemporaneamente preoccupante, la sortita dal balcone di Palazzo Chigi per festeggiare una manovra di bilancio che appare – a chi voglia valutarla senza pregiudizi – densa, come minimo, di pericolose incognite.

La «manovra del popolo» (come è stato battezzato fantasiosamente il documento uscito dal Consiglio dei ministri la scorsa settimana) appare un faticoso e contorto slalom tra impegni assunti e possibilità concrete di onorarli senza portare il Paese verso il burrone del dissesto economico e della bancarotta politica. Il Movimento 5 Stelle, partner di governo numericamente più forte ma oggi politicamente più debole rispetto alla Lega, paga il prezzo di una campagna elettorale tutta improntata su promesse quasi impossibili da concretizzare in tempi brevi. Il reddito di cittadinanza e le altre provvidenze di natura assistenzialistica si scontrano con la dura realtà dei limiti di bilancio.

Non imposti – come cerca affannosamente di dimostrare Di Maio – dai cattivi burocrati di Bruxelles, ma dall’esigenza di misurare la spesa pubblica con il metro delle compatibilità economico/finanziarie del Paese. L’Italia – come tutti gli altri Paesi dell’Unione europea e dell’intero globo – è stretta tra le esigenze di assicurare sviluppo, migliori condizioni di vita, servizi essenziali e la restrizione delle risorse finanziarie a disposizione. La crisi economica mondiale dello scorso decennio ha mandato definitivamente in soffitta la chimera della crescita indefinita, mostrando indirettamente le grandi falle della globalizzazione e smentendo la pretesa dell’autoregolazione del mercato.

In siffatte condizioni di contesto, rese più serie nel nostro Paese dal peso enorme di un debito pubblico ereditato dalla imprudenza e imprevidenza dei governi degli scorsi decenni, l’idea di governare attraverso il deficit è un azzardo estremo. Su questo terreno il M5S sembra sordo ad ogni richiamo alla ragionevolezza. Affermazioni come «attingere dal deficit» fanno sorridere prima ancora di preoccupare, perché i debiti sono debiti e non vi si può attingere come fossero un pozzo di monete d’oro. Altrettanto perniciose parole d’ordine quali: «Abbiamo abolito la povertà». Come se bastasse una misura di sostegno al reddito, peraltro gravata dal rischio di essere quasi subito eliminata per mancanza dei fondi necessari, per eliminare le diseguaglianze economiche e le iniquità sociali. Come è noto, il governo, nella sua proposta di manovra di bilancio, conta di bilanciare il deficit (2,4% o forse 2,6% o addirittura 3,0%) con un massiccio aumento del Pil (anche qui la cifra ipotizzata varia dal 2,0% al 3,0%). Però non è dato sapere su quale base concreta il governo faccia queste previsioni e quali siano le realistiche aspettative di maggiori introiti. Al momento attuale l’ipotesi di un così rapido sviluppo dell’economia assomiglia più alla giocata di un gratta e vinci che a un rigoroso calcolo economico. Su questo versante il presidente del Consiglio ha parlato, anche nel suo colloquio privato con il presidente Mattarella, di scelta «coraggiosa». Ai governi non deve mai mancare il coraggio, ma neanche la razionalità delle scelte. Da decenni, in tutto il mondo, gli studiosi di politiche pubbliche concordano sul fatto che le scelte di governo, le scelte per governare, sono soggette a una «razionalità limitata». Ma pur sempre razionalità. Che quanto più si avvicina alla praticabilità, tanto più produrrà risultati effettivi.

Fin qui le «cifre» (spesso azzardate) del governo. Altro aspetto non meno importante è la «cifra» di governo, la narrazione che esso fa del suo operato. In essa si contrappone in modo quasi ossessivo il «popolo» buono alla «casta» cattiva. Una narrazione da favola dei fratelli Grimm. Ma su questo punto si potrà tornare.

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