Pugno di ferro
sulla sicurezza

Il governo è nel pieno della attività legislativa sui due fronti fondamentali della sua azione: da una parte la legge di Stabilità, dall’altra il tema della sicurezza che, nel decreto varato ieri, si è scelto di connettere a quello dell’immigrazione. È proprio quest’ultimo argomento a tenere maggiormente banco nella giornata politica, con il suo inequivocabile messaggio lanciato al Paese. Il messaggio è: questo governo vuole più sicurezza e più rigore, meno immigrati e zero campi rom.

Insomma, pugno di ferro come Salvini ha promesso sin dalla campagna elettorale, e come ha cominciato a fare impedendo alle navi con profughi a bordo di approdare nei nostri porti, facendo definitivamente piazza pulita delle navi Ong nel Mediterraneo italo-libico (in ciò completando un’operazione cominciata – sia pure con metodi e toni diversi – dal suo predecessore di centrosinistra Minniti), cercando di rendere più facile le espulsioni. Il decreto prevede molti dispositivi, a partire dalla limitazione fortissima al permesso per ragioni di protezione internazionale e alle sanzioni per chi, «ospite» a vario titolo in Italia, sia trovato a delinquere e condannato in primo grado.

È un messaggio «di destra» all’elettorato, verrebbe da dire con categorie oggi assai confuse: certo è che esso soddisferà buona parte dell’elettorato, e non solo leghista se è vero, come dimostra una rilevazione del professor D’Alimonte, che addirittura l’ottanta per cento degli elettori del Pd non condivide la linea troppo morbida del suo partito in materia proprio di sicurezza e immigrazione.

Naturalmente sul decreto Salvini piovono le critiche: da sinistra, dalle organizzazioni umanitarie, dal volontariato. Arrivano anche da chi eccepisce, è il caso della Chiesa, circa la decisione di mettere insieme l’immigrazione con la sicurezza trasformando così il fenomeno migratorio in un fatto di mero ordine pubblico. Si sa poi che il M5S non è particolarmente convinto dell’impianto del decreto perché ne teme le conseguenze sul suo elettorato di sponda sinistra che «soffre» ogni giorno di più la coabitazione con la Lega. Ma il «contratto di governo» prevede tacitamente una separazione delle sfere di influenza, e in questo patto migranti e sicurezza spettano a Salvini, per cui Di Maio si guarda bene dal criticare (il decreto è stato varato in Consiglio dei ministri all’unanimità) mentre il Movimento fa sapere che semmai delle modifiche verranno dal libero dibattito parlamentare. Quel che forse Conte e Salvini temevano di più era il giudizio del Quirinale: si era detto addirittura che Mattarella avrebbe potuto non firmare il decreto se avesse riscontrato gravi violazioni alla Carta Costituzionale. Probabilmente non accadrà: gli uffici del Colle, nella trattativa riservata che si avvia sempre prima che un testo venga presentato, hanno già ottenuto buona parte di quel che chiedevano (per esempio che qualunque azione sanzionatoria a carico di che delinque sia l’effetto di un’azione della magistratura e non delle sole forze dell’ordine). Non è detta l’ultima parola, però Salvini ieri in conferenza stampa su questo particolare aspetto si è mostrato piuttosto tranquillo.

Sull’altro fronte, quello della legge di Bilancio, si continua a trattare, a cercare soluzioni condivise tra il ministro Tria, i tecnici del Tesoro e della Banca d’Italia (quelli che il portavoce di palazzo Chigi Casalino vorrebbe cacciare in massa) e le due istanze politiche di Lega e M5S. Ora che Macron ha annunciato un maxi taglio fiscale in Francia e l’aumento a quasi il tre per cento del deficit della Republique, Di Maio ha protestato: «Anche noi vogliamo fare lo stesso!». Tria gli ha però subito ricordato che la Francia ha un debito al 93 per cento del Pil, ben distante dal nostro 133 e rotti. Ci ha pensato anche Mario Draghi a lanciare un altro rimbrotto al governo di Roma accusandolo di aver già fatto troppi danni anche solo con parole e dichiarazioni.

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