La buona politica
della Nuova Zelanda

A nove giorni dalla strage nelle due moschee di Christchurch compiuta dal suprematista bianco Brenton Tarrant, australiano di 28 anni, la Nuova Zelanda è ancora sotto choc. Troppo grande la tragedia (50 morti) per un Paese piccolo (5 milioni di abitanti), dove la convivenza (200 etnie e 160 lingue) è assodata e non ha mai generato gravi tensioni.

Ma le istituzioni non hanno speculato sulla paura, anzi. Hanno governato l’inevitabile momento di instabilità con fermezza ma pure con grande sensibilità, a cominciare dalla primo ministro Jacinda Ardern, 37 anni, laburista, la donna più giovane alla guida di un governo, che ha tenuto un discorso in Parlamento impeccabile, al punto di essere ripreso da molti giornali nel mondo come esempio di vera leadership, contenente spunti che dicono qualcosa di importante anche a noi, grandi democrazie traballanti. A cominciare dall’idea di sicurezza: «Significa essere liberi dalla paura della violenza.

Ma significa anche essere liberi dalla paura dei sentimenti di razzismo e odio, che creano un ambiente dove la violenza può prosperare. E ciascuno di noi ha il potere di cambiare le cose» ha detto la premier. Si è rivolta anche alle famiglie delle vittime: «Non possiamo conoscere il vostro dolore ma possiamo accompagnarvi in ogni vostro passo. Possiamo. E lo faremo, vi circonderemo di amore e condivisione e di tutto ciò che ci rende noi. I nostri cuori sono pesanti ma il nostro spirito è forte».

Poi il passaggio più spiazzante: «Cercava di ottenere molti risultati dal suo atto di terrorismo e uno di questi è la notorietà. Per questo non mi sentirete mai pronunciare il suo nome. È un terrorista. È un criminale. È un estremista. Ma quando parlo sarà senza nome. E imploro tutti voi e tutti quanti: pronunciate forte il nome di chi è rimasto senza vita, non quello di chi gliel’ha tolta. Forse cercava notorietà ma noi in Nuova Zelanda non gli daremo nulla. Nemmeno il suo nome». La pena del silenzio, che andrà ad aggiungersi a quella che gli infliggerà la legge. La primo ministro ha quindi puntato il dito contro i social media, invitandoli a una presa di responsabilità perché «non c’è dubbio che le idee e il linguaggio della divisione e dell’odio esistono da decenni, ma come si distribuiscono, gli strumenti della loro organizzazione, questi sono elementi nuovi».

Quando il terrorista suprematista ha cominciato la diretta Facebook in cui ha filmato dal vivo (con una telecamera sul casco che indossava) parte del primo attacco alla moschea, 4 mila persone si sono connesse come spettatori e nessuno di loro ha pensato per 29 lunghi minuti di segnalare il video a Facebook, che non riesce quasi mai ad accorgersi automaticamente se un contenuto è violento, pericoloso o incita alla violenza. Le piattaforme social dicono di usare l’intelligenza artificiale per proteggerci ma in realtà lo strumento non è abbastanza intelligente e c’è bisogno di qualcuno che segnali il contenuto. Il video viene visto 200 volte da 4 mila persone. Ricevuta una segnalazione, Facebook lo ha cancellato. Ma troppo tardi: era già stato copiato da decine di migliaia di utenti, per sostegno all’oscena causa del terrorista o per macabro voyeurismo, rendendolo virale.

Nel prime 24 ore dopo l’attentato il video è stato ricaricato su Facebook 1,5 milioni di volte: inquietante. Gli inquirenti vogliono capire se c’è stato un movimento coordinato di sostenitori dello stragista che ha contribuito alla diffusione del filmato contenente anche il manifesto ideologico del suprematista bianco. Un diciottenne è in carcere: non ha niente a che vedere con l’esecuzione materiale dell’attentato ma ha contribuito a diffondere il video dell’attacco accompagnandolo con frasi e altre immagini d’odio. In questi giorni il video è stato fatto circolare irresponsabilmente anche dal presidente della Turchia Recep Erdogan, promettendo vendetta. La premier Ardern ha inviato subito il suo ministro degli Esteri ad Ankara per chiedere chiarimenti su un’iniziativa potenzialmente esplosiva. Anche l’Australia ha protestato, convocando l’ambasciatore turco.

Nel suo primo intervento in Parlamento dopo la strage, la primo ministro ha inoltre annunciato la revisione della legge sulle armi che non prevede l’obbligo di registrazione, «per garantire la sicurezza ai neozelandesi». Nel Paese infatti circolano un milione di armi (su 5 milioni di abitanti) in mani private. Lo choc per la strage è stato tale che molti cittadini si sono presentati alla polizia per consegnarle chiedendone la distruzione. Le nuove norme hanno messo al bando fucili d’assalto, caricatori con più di sette proiettili e armi semi-automatiche di tipo militare. Negli Stati Uniti queste sono tuttora legali in 45 Stati, malgrado abbiano provocato 2.971 morti solo nel 2019. La piccola Nuova Zelanda dà una grande lezione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA