Quella foto di papà e figlia
non smuove la pietà politica

Il braccio della bambina è ancora attorno al collo di suo papà. Li hanno trovati così sulla sponda del Rio Grande, quasi al confine tra Messico e Texas. Il papà, probabilmente per proteggerla l’aveva infilata dentro la sua stessa maglietta. Li hanno trovati così, faccia in giù nell’acqua e nella fanghiglia, annegati nel tentativo di passare il confine. È un’immagine che ha fatto il giro del mondo, al pari di quella del piccolo Aylan, il bambino curdo ritrovato morto nel 2015 sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, dopo il naufragio del gommone che avrebbe dovuto portare lui e la sua famiglia sull’isola greca di Coo.

C’è un elemento che unisce queste due fotografie scattate a migliaia di chilometri di distanza: tutti i poveri corpi sono stati rinvenuti a testa in giù. È un segno che restituisce tutto il peso non solo della morte, ma anche dell’umiliazione subita. Sono corpi di cui non conosciamo i volti, quasi avessero voluto nasconderceli: e così diventano ancor più «presenti» alla nostra coscienza. Sono come un vulnus difficile da anestetizzare. Il papà e la bambina erano migranti salvadoregni. Non conosciamo i loro volti ma sappiamo i loro nomi, Oscar Alberto Martinez e Angie Valeria. Possiamo immaginare con quale amore quel padre avesse pensato di rischiare quell’avventura per cercare di dare una chance di futuro alla sua figlioletta. Non si emigra per sé, si emigra per chi viene dopo: la foto di Oscar e Angie ci dice anche questo.

Eppure, anche davanti a un’immagine così, dobbiamo constatare l’assoluta impermeabilità della nuova politica: non c’è più spazio neppure per una pietà di circostanza... È accaduto qualcosa di simile anche in Italia, con la vicenda della Sea Watch, la nave della ong olandese che alla fine ha rotto gli indugi ed è approdata a Lampedusa con i 42 migranti a bordo, forzando il blocco italiano. Anche quei migranti nei giorni scorsi avevano fatto sentire la loro voce, sofferta e disperata. Ma ieri la voce della politica si è alzata usando ancora una volta toni brutali e a tratti irriferibili.

Siamo di fronte a una deriva sconcertante, che non prevede dubbi e ripensamenti, neanche di fronte a drammi come quelli testimoniati dalle cronache di questi giorni. Una situazione inedita, che lega l’Italia e gli Stati Uniti: ma non dimentichiamo il pilatismo di tutta l’Europa, che non si «sporca» di cattive parole come Matteo Salvini, ma che sul piano dei fatti non se ne discosta. È una situazione in cui sembra che solo il cinismo decida, mentre a chi non ci sta resta solo la possibilità di una commozione che però non è in grado di smuovere le coscienze e le cose. Viviamo quasi un’impotenza del bene, che viene travolto in ogni circostanza dalla dirompenza del rancore. Come si può uscire da una situazione così? È la domanda che attanaglia il tempo che viviamo e di fronte alla quale oggi si può confidare nella forza della preghiera (guai a perdere la fiducia in quest’«arma»...) e nella pratica quotidiana della tolleranza e dell’accoglienza. Oggi il bene è chiamato non certo ad alzare bandiera bianca ma a saper vivere e agire in trincea. È il momento dei gesti semplici più che delle grandi battaglie; del curare i contesti in cui ci si trova a vivere più che i «muro contro muro» mediatici. Non dimentichiamoci che se stiamo vivendo questa deriva è anche perché il fenomeno della migrazione nel recente passato è stato trasformato in battaglia ideologica, a volte pur con le migliori intenzioni, ma molte volte trasformando l’accoglienza in affare. Per questo guardando i poveri corpi di Oscar e Angie non pensiamo che siano solo sulla coscienza di quelli come Trump: sarebbe una semplificazione di comodo che rende loro un’ulteriore ingiustizia.

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