Riforme, i rischi
sul referendum

Anche in questa legislatura non mancano revisioni costituzionali.
Non una riforma organica della Costituzione, ma singole revisioni. L’approccio va salutato con favore. Tra le riforme, una prima approvazione in Senato ha ricevuto un progetto di riduzione del numero dei parlamentari che porterebbe a 400 i Deputati e a 200 i Senatori. Alla Camera è depositato un progetto di revisione che sta facendo discutere, mirante
alla modifica dell’iniziativa legislativa popolare. Si introdurrebbe un’iniziativa legislativa rafforzata che, quando sia sottoscritta da almeno 500.000 elettori, anziché dai 50.000 richiesti per l’iniziativa ordinaria, si tradurrebbe in un testo su cui le Camere dovrebbero deliberare entro 18 mesi. Se le Camere dovessero lasciar cadere il testo di iniziativa popolare o anche approvarlo secondo una versione sostanzialmente differente, si aprirebbe la possibilità di un referendum deliberativo che avrebbe come oggetto l’originaria proposta legislativa popolare, da sola, o, in alternativa all’eventuale testo differente approvato dal Parlamento.

L’obiettivo che traluce da queste riforme è quello di riequilibrare il rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Il presupposto è anche condivisibile: l’iniziativa legislativa popolare è uno strumento del tutto privo di efficacia ed è giusto rinvigorirlo. La stessa riforma Renzi-Boschi mirava marginalmente a introdurre nuovi tipi di referendum. Discutibile è però l’idea che il rinvigorimento della democrazia nel nostro Paese sia da attendersi principalmente dall’iniezione di strumenti di democrazia diretta (iniziativa legislativa rafforzata, nuove tipologie di referendum).

Sono ben noti i limiti della democrazia diretta: da quello di una semplificazione delle questioni politiche, ridotte alla logica binaria di un quesito; a quello della produzione di una decisione senza autori e senza responsabili, perché scaturente da una sommatoria di volizioni individuali. In questo specifico caso, l’iniziativa popolare rafforzata produrrebbe un testo e dunque una proposizione articolata e non solo una risposta, in termini di sì e di no. E tuttavia proprio l’articolazione di una proposta di legge sottoscritta da almeno 500.000 elettori presume, come la promozione di referendum abrogativi oggi, una capacità organizzativa e una regia e cioè una mediazione che, attorno a un testo, sappia veicolare e raccogliere le sottoscrizioni dei cittadini.

Tale procedimento premierebbe quindi una minoranza organizzata del corpo elettorale, a conferma di come dietro alla cosiddetta democrazia diretta si celino sempre livelli più o meno complessi di mediazione. All’esito di questa revisione, si appronterebbe un canale di produzione legislativa parallelo e alternativo a quello rappresentativo. Se ne potranno avvalere minoranze forti e organizzate, con facilità di accesso diretto ai mezzi di comunicazione. Non è però sul piano dell’enfasi della democrazia rappresentativa che vanno mossi i rilievi maggiori. La nostra Costituzione non celebra certo la rappresentanza parlamentare come strumento esclusivo di partecipazione popolare. E la crisi dei partiti non fa che rendere necessari canali integrativi.

Se però davvero si vuole restituire ai cittadini una possibilità concreta di partecipazione alla vita politico-istituzionale è al rafforzamento delle autonomie sociali e territoriali (enti locali e regioni) che si dovrebbe guardare. Grazie a queste infatti, non è «il» popolo, entità mitologica e semplificata, a decidere, ma un popolo concreto e dunque plurale, capace di organizzazione e di azione su un territorio determinato. Il rischio di una partecipazione de-territorializzata è che si perseveri con la mistificazione del popolo portatore di una impossibile volontà unica e semplificata, non più magari esito di mediazione parlamentare, ma di singole procedure referendarie.

© RIPRODUZIONE RISERVATA