Se il governo sfida
le leggi della fisica

Il governo Conte è un po’ come il calabrone. È anch’esso una sfida vivente alle leggi della fisica. Il nostro insetto, con le ali minuscole e il corpo tozzo che si ritrova, non dovrebbe volare, eppure vola. Lo stesso discorso vale per «l’avvocato del popolo». È un presidente del Consiglio privo di forza propria e, nonostante l’endemico stato litigioso della sua maggioranza, continua tranquillamente a stare in piedi. Anzi, quanto più Di Maio e Salvini lo maltrattano, tanto più lui si rafforza: in popolarità e capacità d’iniziativa. Non c’è settimana che non si apra con l’annuncio che sarà quella decisiva: annuncio regolarmente smentito con il suo rinvio alla settimana successiva senza che poi succeda, ancora una volta, alcunché di definitivo.

Non è peraltro che, strada facendo, le ragioni del dissenso vengano in qualche maniera appianate. No, restano inalterate. Anzi, si allargano a campi sempre nuovi. La settimana scorsa, l’incaglio per la coalizione è stata l’autonomia regionale differenziata. Questa settimana è la riduzione delle imposte.

Fosse solo il peso delle tensioni in atto sul fronte del programma a far traballare l’alleanza. Macché! Da ultimo è saltato anche il galateo che regola i rapporti tra alleati. Salvini si permette di proclamare che non nutre più alcuna fiducia, anche personale, nei confronti sia di Di Maio sia di Conte e nessuno, a cominciare da lui, ne trae le dovute conseguenze. Sul ministro dell’Interno si allunga pericolosamente il cono d’ombra dei sospetti sulla trattativa condotta da un suo storico collaboratore, Gianluca Savoini, per un finanziamento (illecito) al suo partito e come reagiscono i Cinquestelle? Gli autocelebrati apostoli dell’onestà onestà onestà, che fino a ieri si precipitavano a chiedere le dimissioni anche di sospetti colpevoli di un banale abuso d’ufficio, nel caso del loro prezioso alleato fanno spallucce pur di non innescare una pericolosa frattura nella coalizione.

Conte si appresta a parlare nel corso dell’informativa sull’affaire non poco spinoso del Russiagate e la sua maggioranza si squaglia. Salvini diserta l’aula, facendo per di più cadere nel nulla il pressante invito rivoltogli di riferire sull’argomento in una sede istituzionale. Di Maio non ha nulla da ridire sul fatto che il gruppo parlamentare del M5S abbandoni l’aula, recando un grande sfregio al premier. Conte precisa – e chi vuol intendere intenda - che in caso di «cessazione anticipata» del suo incarico sarà il parlamento, e non i partiti, a decidere sul destino del governo, con ciò lasciando intendere che non sarebbe affatto scontata la fine anticipata della legislatura.

Che fanno coloro che non mancano occasione per sottolineare che sono loro ad avere nelle mani le chiavi di Palazzo Chigi? Di Maio tace, Salvini si limita ad invitarlo a non indulgere a «giochetti di Palazzo». In altri tempi sarebbe bastata anche una sola di queste infrazioni della prassi parlamentare per far scattare le dimissioni del governo. Non così per la maggioranza gialloverde. Nel suo caso, anche i rilievi più taglienti rivolti all’operato di un ministro (facciamo un nome, Toninelli) o i sospetti più imbarazzanti mossi ad un alleato (direttamente a Salvini) scorrono via come acqua su pietra. Adesso scorrono, ma non è detto che prima o poi non trovino la fessura giusta. Allora la crepa potrebbe anche allargarsi e diventare una vera spaccatura.

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