Senza sacrifici
la politica muore

«Per capire davvero cosa vuol dire, tutti
i cittadini dovrebbero provare a fare l’amministratore almeno una volta nella vita». Angelo Dallagrassa, sindaco di Oneta, ne è convinto. Eppure proprio il suo paese, piccolo ma di lunga tradizione, è tra quelli che a fine maggio - quando il primo cittadino uscente, dopo anni di impegno pubblico, si prenderà le giuste soddisfazioni di nonno - si ritroveranno nelle mani
di un commissario. Nessuno infatti si è fatto avanti per raccogliere il testimone dell’amministrazione uscente.

Il caso è tutt’altro che isolato: i Comuni orobici con liste deserte sono già tre, mentre in una quarantina di altri l’aspirante sindaco si prepara a sfidare solo se stesso con il quorum. Il crollo delle candidature (un numero su tutti: cinque anni fa gli aspiranti primi cittadini, con relative liste, erano 414, ora siamo a 348) ha di certo ragioni diverse sul territorio, ultralocali. Ma qualche tendenza generale la si intuisce, in primis una disaffezione generale verso la politica che, nata dalla condanna di certi eccessi e malcostumi della cosiddetta «casta», è finita per piombare anche sulle realtà locali. Che invece - specialmente nei nostri piccoli paesi - raccontano molte volte una storia diversa, fatta di impegno generoso per la comunità.

Impegno che in municipio può diventare quasi h 24 (provare, per credere, ad andare a bere il caffè al bar con un sindaco, per non parlare degli instancabili commenti social) con retribuzioni non propriamente da nababbi e grattacapi per bilanci che di anno in anno dimagriscono. Così, incastrare un compito carico di responsabilità, che richiede studio e competenza, nelle nostre vite sempre più di corsa, sempre più precarie diventa un puzzle troppo difficile, per tanti. Soprattutto per la generazione tra i 30 e 40 anni, a cui invece toccherebbe oggi prendere il testimone degli uscenti «storici».

Esempi di grande vivacità e fermento, va detto, non mancano, nemmeno nelle piccole realtà e tra i giovani. Ma una certa tendenza alla fuga si fa notare, e non si può negare che sia una sconfitta per tutti. Perché una sola lista in paese, per esempio, vuol dire che non solo ci sarà ben poco confronto sui programmi, ma che mancherà anche quel pungolo che un’opposizione - magari col rischio, qualche volta, di innescare dinamiche da talk show - sempre rappresenta. E in un’epoca che sembra dominata dagli slogan e dalle semplificazioni, una piccola aula consiliare può diventare una straordinaria occasione di allenamento alla complessità, a promuovere il confronto, a cercare mediazioni.

Pure, allargando lo sguardo, per far crescere una classe dirigente. Ne ha scritto tra gli altri, nei giorni scorsi, il governatore ligure Giovanni Toti: «Per fare il parlamentare dovrebbe essere obbligatorio aver fatto almeno l’amministratore locale: sindaco, assessore o consigliere. Almeno così chi va in Parlamento saprebbe quali pratiche servono per aggiustare una strada, fare i conti con bilanci sempre più magri, gli effetti che i tagli hanno sulla vita delle persone. Credo che sarebbe una seria e utile riforma della politica».

Certo le ragioni di una presa di distanza sono profonde, e invertire la tendenza è questione complessa. Un auspicio però lo si può esprimere da subito: che alla diminuzione dei candidati non faccia seguito quella degli elettori, e che il 26 maggio sia un’occasione di mostrare come la scelta di chi ci governa ci stia a cuore. E magari in quel seggio, pur nella legittima, anzi doverosa critica, ci ricorderemo di dedicare anche un pensiero benevolo a chi sceglie questa strada, bellissima e nobile ma piuttosto impervia.

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