Sostegno alle imprese
Se l’Italia va da sola

L’ Italia si affaccia al mondo con un debito che in ragione del 133% del Pil è diventato la vera corda al collo del Paese. Se a qualcuno sinora non è riuscito di tirarla è perché la Banca centrale europea è intervenuta e ha impedito il default. L’appartenenza europea è l’ancora di salvezza. L’Europa è però diventata suo malgrado terreno di conquista e quindi il campo di contesa fra le superpotenze Cina e Russia da una parte e un’America alla ricerca dello splendore perduto dall’altra.

La Brexit evidenzia la fragilità dell’Unione europea e i nazionalismi risorgenti ne intaccano alla base il consenso. Questo spiega perché tutti i contendenti, Stati Uniti inclusi, si rivolgano agli europei singolarmente Paese per Paese. Trattare con le singole capitali rende evidente la sproporzione tra le superpotenze e i vecchi Stati nazionali. Che peso contrattuale può avere la Grecia per esempio con suoi 10 milioni di abitanti al confronto con il miliardo e mezzo di cinesi? Spinti dal bisogno i greci hanno messo in vendita il porto del Pireo. Le imprese cinesi l’hanno acquisito in toto e reso punto di arrivo delle loro merci dirette all’Europa sud orientale.

Le sorti degli impianti si sono risollevate e l’occupazione ne ha guadagnato. È evidente che Atene si senta in debito di riconoscenza e voglia ricambiare. E l’occasione l’ ha quando nel giugno del 2017 l’Unione Europea presenta una mozione di condanna per violazione dei diritti umani di Pechino contro la minoranza turcofona di religione islamica degli Uiguri. È necessaria l’unanimità e Atene la nega. Per un governo socialista come quello di Tsipras una forzatura.

Ma a questo si giunge per compiacere il proprio benefattore. In Portogallo nel 2011 a seguito della crisi del debito, Energias do Portugal, l’Eni in versione portoghese, viene acquisita dall’impresa statale China Three Gorges Corporation per quasi tre miliardi di dollari. Per Lisbona una boccata d’aria ma da allora quando si tratta di andare a fondo sui controlli e sulla trasparenza degli investimenti cinesi in Europa il governo portoghese si tira indietro. Lo stesso si può dire per Orban in Ungheria, grato per l’appoggio a favore di un’università cino-ungherese da contrapporre alla Fondazione dell’odiato Soros. La Cina ha inventato la Belt and Road Initiative perché ha il problema di dover offrire a tutta la popolazione e non solo ad una parte, come sinora, occupazione. Portare il Paese fuori dal sottosviluppo, aumentare la produzione e creare gli sbocchi per l’ esportazione, questi gli obiettivi. Per rendere appetibile il progetto agli interlocutori si applica la teoria del «win win».

Tradotto: noi abbiamo bisogno dei vostri mercati e delle vostre infrastrutture voi dei nostri soldi, entrambi ci guadagniamo. Il governo di Roma abbozza e spinge per la firma del memorandum di intesa per la cosiddetta Via della seta. Crede di aver trovato la scorciatoia per rimediare ai guai dell’economia italiana, dimenticando che chi finanzia poi comanda. Un viaggio a Palermo nella speranza che il partner cinese investa anche su quel porto o su Termini Imerese e che comunque acquisti prodotti ortofrutticoli spiega bene la vulnerabilità italiana.

Creare strumenti finanziari con la Cina per favorire le imprese italiane è un vincolo per un Paese già di suo indebitato. Non a caso Confindustria invita ad agire di concerto con gli altri membri dell’Unione Europea. Resta il fatto che l’Italia, in quanto Paese fondatore dell’Unione e membro del G7, dà un’apertura di credito alle ambizioni cinesi e legittima il ruolo geopolitico della superpotenza. Il prezzo da pagare è un’uscita in solitario. Valgono le arance di Sicilia la perdita di fiducia dei partner occidentali?

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