Un padre umiliato
in pasto alla rete

Le parole lette da una cinquina di pagine, la voce rotta dall’emozione e dal dolore sullo sfondo di un ufficio in disuso, spoglio di arredi. Una scenografia triste, come il volto di chi parla, Antonio Di Maio, che chiede scusa per gli errori commessi: lavoro nero nell’azienda di famiglia e piccoli reati ambientali in un terreno di proprietà. Il «mea culpa» è andato in scena su un profilo Facebook aperto apposta, per poi finire sul blog dei 5 Stelle e da lì, veloce come la luce, nei siti dei quotidiani.

L’obiettivo di questa desolante ammissione era mettere una distanza netta dal sospetto di corresponsabilità del rampollo in carriera: «Mi dispiace per mio figlio Luigi - dice il papà - che stanno cercando di attaccare, ma lui non ha la minima colpa, e non era a conoscenza di nulla». La polemica però non si è chiusa. Mentre l’azienda è stata sciolta, il Pd ha chiesto addirittura al vice premier di «venire in aula a riferire» e il deputato Pd Carmelo Miceli, di Napoli, con un esposto invita la procura partenopea a valutare altre ipotesi di reato: sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, falso in bilancio, intestazione fittizia di beni, fino alla ricettazione e al riciclaggio.

Del resto al Partito democratico non sembra vero: Matteo Renzi finì nell’occhio del ciclone per inchieste che hanno riguardato il padre (poi prosciolto e vincitore di due cause per calunnia contro il direttore del Fatto quotidiano, Marco Travaglio), così come l’ex ministra plenipotenziaria Maria Elena Boschi (per il papà implicato nelle vicende di Banca Etruria).

Le colpe dei padri non ricadono sui figli è un bel principio, ma in politica (in questa politica) evidentemente non vale. Il filmato delle scuse di Antonio Di Maio, un’umiliante video confessione, è la nemesi del potere della gogna. L’inchiesta farà il suo corso ma il rimbombo che ha generato è la conferma del rapporto malato fra politica e giustizia. Da Mani Pulite in poi le indagini sono diventate uno strumento utilizzato per colpire l’avversario, segnando un’assenza totale di cultura garantista (anche nell’opinione pubblica) e una povertà di argomenti. L’apice è proprio l’affermazione del movimento che anche su questa onda distruttrice ha acquisito consenso e successo: i 5 Stelle che inneggiavano alla presa del palazzo al grido «onestà, onestà», riproponendo l’eterna questione morale in formato estremizzato.

L’attacco ai giornali dopo l’assoluzione dall’accusa di falso documentale del sindaco di Roma Virginia Raggi ha due chiavi di lettura: il movimento è diventato garantista e prende distanza dall’informazione nazionale che in buona parte è giustizialista; ma è anche grazie a quell’informazione, che in maniera populista per anni ha sbandierato la bandiera dell’anti Casta, che il movimento si è affermato. Politici onesti sono il prerequisito di una democrazia sana, non l’obiettivo di campagne elettorali moralizzatrici. I processi si fanno nelle aule di giustizia (quante volte è stato detto e scritto) e non nelle piazze, nei talk show o sui giornali.

La Costituzione dice che «la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Principi che valgono per Antonio Di Maio come per Ilaria Capua, virologa, deputata di Scelta civica, accusata di traffico di virus. Venne travolta da una campagna giustizialista dei 5 Stelle e di un settimanale. Prosciolta dall’indagine, si dimise dal Parlamento e andò a lavorare negli Stati Uniti, disgustata dal clima sociale del nostro Paese.

Quest’anno ricorrono i 30 anni dalla morte di Enzo Tortora, un galantuomo vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia della Repubblica. Fu arrestato all’alba del 17 giugno 1983, esibendolo alle telecamere ammanettato, con l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Da questa vicenda grottesca e tragica ne uscì pulito ma segnato da un grande dolore che lo portò alla malattia e poi alla morte. La Rai quest’anno ha riproposto la sua trasmissione più famosa (Portobello) in una versione aggiornata. La prima puntata si è aperta con un ricordo dovuto a Tortora, ma clamorosamente senza citare il calvario giudiziario a cui fu sottoposto. La rimozione è un grande pericolo. Da quel 1983 infatti nulla è cambiato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA