Unione europea
Ferite da curare

Europa, sì, quale? Un dibattito che ci coinvolge attirandoci verso due poli opposti: il sovranismo da un lato e l’europeismo dall’altro; siamo impreparati al significato dell’uno e disillusi dal senso dell’altro. Perché un’Europa a tutti i costi, ma soprattutto, perché un’Europa a questi costi, a queste condizioni? L’Europa nata come comunità «del carbone e dell’acciaio» nel 1951 ad opera di sei Paesi, diventa nel 1957 una «comunità economica» nella quale i governi dei Paesi membri si sono adoperati perché la loro unione ristabilisse degli equilibri di pace e collaborazione in un contesto instabile e postbellico. L’obiettivo era chiaro: vinti e vincitori avevano trovato una ragione - nello sviluppo dei rapporti economici - per concentrarsi sulla ripresa e sulla ricostruzione interna a ciascun Paese e, allo stesso tempo, non doversi preoccupare di quelle tensioni che avevano portato al Secondo conflitto mondiale.

Questo era il senso: sviluppare una pace inter-stati, attraverso il minimo comune denominatore della ripresa economica. Pare evidente che in questa prospettiva non vi era il confronto su valori comuni ad ogni singolo Stato; questo ha fatto sì che il numero dei Paesi interessati a partecipare a queste «comunità» prima e «unione» dopo, crescesse sempre di più passando da sei per la Comunità economica del carbone e dell’acciaio Ceca a ventotto oggi nell’Unione europea, con altri cinque Paesi candidati.

In virtù dell’interesse sempre crescente all’adesione si è ritenuto che l’elemento economico facesse «spontaneamente» nascere «un’anima europea» in una popolazione formata da cittadini molto diversi per cultura, valori, storia; in una popolazione che fino a pochi decenni prima si era combattuta proprio in virtù di queste differenze. C’è un però: i governi dei singoli Stati pensavano di poter «disporre delle coscienze» dei cittadini, come di scelte economiche; pensavano che per il fatto di intitolare un trattato - con valori generalisti e senza radici - «Costituzione» diventassimo tutti «cittadini europei», diventassimo tutti figli di una stessa madre: così non è avvenuto. I governi, dopo aver scritto di una «cittadinanza europea», hanno chiesto ai loro «cittadini reali» se fossero d’accordo, il risultato ha colto di sorpresa e, con la bocciatura referendaria di Francia e Paesi Bassi nel 2005, la «Costituzione europea» si è indirizzata su di un binario morto, verrà «parzialmente» recuperata nel 2007 con il Trattato di Lisbona.

A fronte di questo fallimento è apparsa evidente l’autocefalia dell’Unione europea, di questo soggetto dimentico del fatto di essere stato creato dai governi dei singoli Paesi quale strumento a vocazione prettamente economica e commerciale, di questo soggetto che ha espresso silenziose azioni con importanti ricadute sulle popolazioni dei singoli Paesi, azioni talvolta in contrasto con i valori, la storia e la cultura propria di quegli abitanti.

Oggi lo scollamento tra l’istituzione e la popolazione porta da un lato la dispositiva macchina europea a cercare alleanze per mantenere la propria autocefalia, dall’altro le popolazioni dei singoli Stati a rivendicare una propria soggettività pretendendo il riconoscimento della propria identità, dei propri valori, delle proprie radici, della propria storia, della propria cultura. Il processo indicato da Massimo d’Azeglio quando nel 1861 disse: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani» a 158 anni di distanza è tuttora «in lavorazione» - forse più di prima - come una nuova sfida sociale, perché le immigrazioni ci chiedono ogni giorno di ri-essere un po’ più italiani per accogliere nella dignità della nostra identità. Il popolo dei cittadini dei singoli Paesi europei, si è svegliato dal sogno a 12 stelle e non si accontenta più di essere blandito dal ritorno di visioni che dichiarino «diamo un’anima all’Europa» cercando di scaldare i cuori e gli animi verso una realtà che così non c’è. La Brexit è il segno evidente che «l’interesse economico» che diede inizio alla recente storia europea, non è più condiviso dai cittadini della Gran Bretagna che di fronte al dilemma: interesse economico- popolo britannico, hanno scelto per il secondo e, a nulla sono valse le prospettive di impoverimento complessivo dovute alle conseguenze di questa scelta. Il popolo britannico ha vinto con uno strappo identitario, che la politica non ha saputo interpretare.

Ogni strappo, porta con sé delle ferite, ed è per questo che auspichiamo una politica capace di affermare, custodire e promuovere in ogni sede i valori della famiglia, della vita, del lavoro, espressioni delle radici del popolo italiano ma - allo stesso tempo - una politica consapevole che i bordi del nostro Paese sono necessariamente cuciti ai bordi di altri Paesi ed ogni strappo diventa una ferita, questa volta sì «all’anima», ma quella di ogni cittadino.

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