Vaticano-Cina
Stagione nuova

Una stretta di mano al termine di un incontro segreto, senza preavviso, giornalisti e fotografi dietro la porta, mette la parola fine a settant’anni di diffidenza e di prospettive che, nonostante tanti sforzi, sono apparse a molti e non solo ai critici quasi inconciliabili. La sera scorsa a Monaco di Baviera a margine di un vertice internazionale di routine, la Conferenza sulla sicurezza che si svolge dal 1963, il ministro degli esteri di Pechino Wang Yi e il Segretario per i rapporti con gli Stati, cioè il ministro degli esteri vaticano, mons. Paul Richard Gallagher si sono incontrati archiviando sette decenni di lontananza delle due diplomazie, dal tempo di mons. Antonio Riberi, ultimo ambasciatore del Papa espulso dalle autorità comuniste.

Nonostante il basso profilo mantenuto da entrambi gli Stati, l’incontro di Monaco ha una portata storica e non si può escludere che sia stato proprio il coronavirus e la solidarietà espressa dal Papa ad una Cina in evidente difficoltà, anche con l’invio simbolico di settecento mila mascherine marcate Santa Sede, ad affrettarlo. Nello scarno comunicato pubblicato dalla Santa Sede si cita l’epidemia, ma anche la necessità di una maggiore cooperazione internazionale per promuovere la pace, segno che i capi delle due diplomazie hanno avuto un colloquio largo su molte questioni e che la Santa Sede non ha alcun timore nel riconoscere a Pechino un protagonismo cruciale sulla scena geopolitica globale.

È un segnale preciso, inviato anche a Washington, di come il Vaticano stia sempre «in partita» con un ruolo decisivo nella politica globale. Ma il colloquio di Monaco suggella al più alto livello la visione strategica che la Santa Sede ha sempre avuto nei confronti di Pechino, mai chiudendo porte, sempre tenendo aperti spiragli nei momenti più difficili, contestando e resistendo anche a chi all’interno della Chiesa critica i Papi, da Wojtyla a Ratzinger a Bergoglio, per la loro ostinazione ad offrire una possibilità alla Cina.

Insomma oltre trent’anni di trattative e di incontri segreti a Roma e a Pechino e di «diplomazia corsara» con concerti, mostre e perfino un accordo tra l’Ospedale pediatrico vaticano «Bambino Gesù» e un Centro di eccellenza pediatrica cinese, sono serviti. La storia dei rapporti tra Vaticano e Cina è stata un intreccio di dolori e incomprensioni, ma anche di prove di vicinanza e di stima, in cui i due interlocutori non si sono mai persi di vista. Inizia con Wojtyla passa da Ratzinger e arriva a Francesco che andrebbe in Cina anche domani.

A Monaco naturalmente si è parlato dell’accordo provvisorio tra Santa Sede e Pechino sulla nomina dei vescovi che ha aperto una fase nuova. È un processo da seguire con estrema cura e questo è stato anche il senso dell’incontro in Baviera. Oggi sono sempre di meno coloro che a Pechino e a Roma vedono tutto bianco o tutto nero. La realtà è più complessa e le ampie sfumature di grigio fortunatamente sono riuscite a dettare le agende, senza la retromarcia alla logica dello scontro con vescovi e comunità clandestine buone perché fedeli al Papa e vescovi e comunità «patriottiche» cattive. Di chi è il merito? Nei dirigenti cinesi è sparita l’idea che le religioni siano un residuo feudale da sradicare dalla società e hanno capito che insistere avrebbe portato a maggior ostilità. La Santa Sede ha colto l’importanza dello spiraglio aperto e vi ha messo di traverso un tacco, intuizione di Giovanni Paolo II espressa con una lettera personale consegnata anni fa a Pechino a Deng Xiaoping dal senatore Vittorino Colombo. Quel tacco la diplomazia vaticana cocciutamente è riuscito a tenerlo per anni fino al clamoroso e storico incontro dell’altra sera a Monaco.

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