«L’ovvio è una trappola: nella vita normale c’è il meglio per noi»

L’INTERVISTA. È appena uscito il quarto libro di monsignor Giulio Dellavite, Segretario generale della Curia di Bergamo: un «Elogio» controcorrente.

È nelle librerie il nuovo libro di monsignor Giulio Dellavite «Elogio della normalità. Riscoprire il divino nella vita di tutti i giorni» (Mondadori, pp. 218, euro 18). Sacerdote dal 1996, dopo aver svolto alcuni anni di ministero parrocchiale e aver lavorato in Santa Sede come Officiale della Congregazione per i Vescovi, monsignor Dellavite oggi è Segretario generale della Curia di Bergamo. Con Mondadori ha già pubblicato «Benvenuti al ballo della vita» (2011), «Se ne ride chi abita i cieli» (2019) e «Ribellarsi» (2021).

Perché ha pensato di fare un «elogio» di qualcosa che è sotto gli occhi di tutti?

«La normalità spesso ci sembra sinonimo di noia, grigiore, rassegnazione. Una ruota da criceti su cui continuiamo a correre, una prigione dalla quale vorremmo evadere. A volte ci sembra una prigione, tanto da volerne forzare le sbarre per evadere. Ci sono momenti in cui i rimpianti sembrano superare i sogni e allora si vorrebbe qualcosa di diverso. Invece di ingozzarsi di illusioni e trovarsi poi a vomitare delusioni, il mio vuol essere un invito a riscoprire la straordinarietà dell’ordinarietà. Se affiniamo lo sguardo e apriamo il cuore, le piccole cose quotidiane hanno un valore immenso, possono permetterci di evolvere e migliorare».

È una riflessione che ha fatto anche davanti a se stesso?

«Compiendo cinquant’anni, mi sono reso conto di aver superato il giro di boa della vita. Ho avuto il dono meraviglioso di esperienze uniche; di una alta formazione culturale, teologica, spirituale, manageriale; di compagni di strada speciali. E mi sono reso conto che il meglio non l’ho trovato nei momenti eccezionali, luccicanti, negli “effetti speciali”, ma era avvolto dalla normalità. Cosa c’è di più strano, di più curioso, di più intrigante, di più interpellante della vita di tutti i giorni?! Troppe volte il potere subdolo dell’abitudine opacizza le nostre percezioni. Quando vivevo a Roma, in via della Conciliazione, percorrevo più volte al giorno la stessa strada per andare in ufficio in Piazza San Pietro: la cupola di Michelangelo, che migliaia di turisti arrivati da tutto il mondo stavano fotografando incantati, io quasi non la vedevo più. Era diventata ovvia».

Ecco, questa parola, «ovvio», è molto utilizzata dalle generazioni più giovani. Questo suo lavoro è un po’ una sfida alla mentalità corrente?

«Sì, perché noi rischiamo di confondere il normale con l’ovvio o lo scontato. Invece normale è ciò che dà la norma, che dà forma alla vita. La normalità è in realtà la scelta di qualità della vita di tutti i giorni: se la tua forma, la tua norma, il tuo criterio, il tuo metro di misura è di qualità, ciò che fai tutti i giorni diventa eccezionale. Questo è “lo straordinario nell’ordinario”. Se io investo su me stesso e mi rendo conto delle tante cose belle che ogni giorno ciascuno di noi fa, dice, riceve, la forma della quotidianità diventa una forma di qualità. Che tante volte noi non siamo capaci di gustare, vedere, riconoscere perché siamo troppo presi da mille cose. L’obiettivo del libro è aiutare a rendersi conto di quante cose belle, vere, buone ci sono nella vita di tutti i giorni».

La cultura in cui siamo immersi dice il contrario: se uno non riesce a mettersi in luce con qualcosa di straordinario, o almeno un po’ strano e insolito, pensa di non valere niente.

«Il sottotitolo del libro dice esattamente questo: “Riscoprire il divino nella vita di tutti i giorni”. Non mettercelo. Non fare il “divino tuo”, fare l’idolo, trasformarti in divinità. Ma scoprire, accogliere il divino che è già dentro nella vita di tutti. È una dimensione liberante. Anche la struttura del libro vuole suggerire una libertà di lettura».

È una sorta di dizionario.

«Un abbecedario. La cosa più normale nella lingua è l’alfabeto. Anche quello giovanile: ho usato parole come “mecciare”, “generazione Yolo” (you only live once: si vive una volta sola), e pure il linguaggio commerciale; assieme a “terrapiattismo”, che invece è una parola vecchia tornata attuale. La struttura “ad abbecedario” è, paradossalmente, una struttura di libertà, perché permette di leggere un capitolo sì e poi magari due capitoli no, di andare avanti e tornare indietro tra le pagine, stabilisce un rapporto di libertà anche con il libro. Non è un romanzo giallo che ti costringe a seguire i suoi passaggi per arrivare a capire chi è l’assassino, la struttura stessa stimola la tua curiosità e fa diventare tuo questo percorso, una scoperta tua».

Parla del Vangelo in una maniera insolita: come un «manuale di umanità».

«Anche Gesù - a parte gli ultimi tre anni della sua vita - ha condotto per trent’anni un’esistenza normale - che noi non conosciamo, visto che i Vangeli ci raccontano solo i suoi ultimi tre: casa, lavoro in falegnameria, sinagoga (come luogo di culto e come scuola), amici. E proprio questa ovvietà vissuta a fondo è stata per lui scuola e palestra di divinità, tempo e spazio per scoprirsi infinito. Lo spiegano i personaggi meno conosciuti del Vangelo, figure secondarie come il cameriere dell’Ultima cena, Giairo, Nicodemo, o il quarto Re Magio. La scelta di raccontarli serve a dire questo: in quelle pagine non c’è solo Gesù Cristo, non ci sono solo i grandi santi che hanno fatto cose straordinarie, ci sono anche personaggi che hanno fatto cose normali, quotidiane, e quelle sono pagine sacre tanto quanto quelle che raccontano i momenti eccezionali. Le cose più solite sono abitate dal divino, da ciò che è buono, bello e vero. In modo provocatorio a un certo punto del libro dico che Gesù ha fatto per tre giorni (gli ultimi della sua vita) il prete; per tre anni l’influencer, ma per i trent’anni precedenti aveva fatto l’uomo. Il Vangelo secondo me è proprio un manuale di umanità che va persino al di là del credere o non credere, dal professare una religione, perché se Gesù è il Figlio di Dio, prima ancora è la realizzazione dell’uomo. È il compimento del sogno di Dio su ciascuno di noi. Scoprire la divinità dentro di sé è esattamente realizzare la propria umanità. Anche se si vive in ruoli apparentemente secondari. Il Vangelo è popolato di personaggi che sembrano comparse, ma in realtà sono protagonisti, come i camerieri alle nozze di Cana, la Veronica, la moglie di Pilato - che finirà per condizionare la scelta del prefetto romano: sembrano comparse ma in realtà, realizzando la loro essenza, sono dei veri protagonisti in quelle pagine. Sono la dimostrazione che la quotidianità è una sorta di “caccia al tesoro”, perché ovunque sono nascosti scrigni misteriosi pieni di ricchezze».

Già, spesso non lo si pensa: tutta la parte finale della vita di Gesù, più teologica, escatologica, in fondo è cresciuta sulle spalle di una vita umana normale.

«Ponzio Pilato quando se lo trova di fronte non dice al popolo: ecco il Messia, ecco il figlio di Dio, ma: “Ecco l’uomo”. Indica Gesù come l’uomo realizzato».

Lei scrive dei libri piuttosto originali: non sono né compendi di catechesi tradizionali, non sono testi di teologia e neppure di morale... Come nascono?

«In realtà sono il frutto di una raccolta di materiale, tra prediche, momenti di formazione, insegnamento, incontri a cui segue un dibattito... Pezzi di vita arricchiti dal confronto con altre persone. Io volta per volta amo registrarli, non lasciarli cadere; li faccio maturare e alla fine, ogni paio d’anni circa, li confeziono in un libro».

Dunque sono libri legati in maniera stretta anche la sua vocazione, al suo ruolo, diciamo così, «pastorale».

«Assolutamente. Il primo passo non è mai mettermi a scrivere, non parto da un’idea, è il contrario: cerco di mettere insieme ciò che ho vissuto in un certo periodo».

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