Non lasciamo
un pianeta malato

Il tempo stringe. Passano gli anni, si ripetono le Cop delle Nazioni Unite - Conferenza delle Parti, ossia l’organismo direttivo della convenzione internazionale sui cambiamenti climatici -, eppure la Terra continua a soffrire. La febbre del pianeta sale, lentamente, ma sale. Un incremento del calore che gli scienziati hanno confermato alla Cop24, a Katowice in Polonia. Il rapporto parla chiaro: l’aumento medio della temperatura globale di un grado e mezzo, al momento, è inarrestabile.

Le indicazioni dell’ultimo rapporto Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) registrano la necessità di ridurre del 45% entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica, altrimenti ci scordiamo il contenimento del riscaldamento e nell’arco dei prossimi 12 anni dovremo fare i conti con eventi climatici disastrosi in diverse parti del pianeta, con gravi conseguenze per milioni di persone. Un quadro talmente chiaro che chiunque di noi che ha cuore se stesso e chi ha al proprio fianco, non avrebbe dubbi sull’urgenza di cambiare rotta.

Il ragionamento è semplicissimo, se non ci sarà più la Terra come l’abbiamo conosciuta e vissuta finora, forse - o sicuramente - non ci saremo più noi. Eppure in Polonia non è andata proprio così. C’è chi non ha posto al centro l’uomo e la Terra, ma l’interesse di bottega. Infatti gli Stati principali produttori di petrolio come Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e Kuwait, non hanno riconosciuto totalmente il rapporto Ipcc: uno studio interessante ma dalle conclusioni eccessive. Quindi - dicono i big del petrolio - complimenti agli studiosi, ma le misure richieste restano sulla carta: nessuna applicazione concreta. In realtà qualche passo in avanti è stato fatto, anche se inadeguato a far fronte al cambiamento climatico. I circa 200 Paesi presenti a Cop24 hanno raggiunto un compromesso su alcune regole comuni da rispettare - il cosiddetto rulebook - per l’attuazione del Protocollo di Parigi del 2015. Ad esempio sono state superate le distinzioni tra Paesi sviluppati e non. E i singoli Paesi si sono impegnati ad attuare gli Ndcs (Nationally determines contributions), cioè impegni volontari di riduzione delle emissioni. Un percorso sul quale gli Stati ora devono davvero sforzarsi per un’inversione di tendenza. Il problema è che l’economia globale è strutturata in modo da rendere complicatissima questa manovra.

Persino territori virtuosi come i nostri faticano ad avviare processi positivi per favorire il cambiamento climatico. È proprio di questi giorni l’emergenza dei rifiuti speciali stoccati in capannoni abusivi in Bergamasca. Per carità, non siamo la terra dei fuochi e il fenomeno non è tecnicamente collegato alla questione climatica, ma è comunque preoccupante rispetto all’ambiente. Anche nella Lombardia modello, il ciclo dei rifiuti che sembrava risolto da anni si è nuovamente inceppato. E chi deve smaltire scopre vie meno costose per «risolvere» il problema. Ancora una volta, più facili e convenienti per sè (addirittura illecite), ma impattanti per la comunità. Ora la politica dovrà senz’altro affrontare questa situazione al più presto, eppure a essere chiamata in causa è anche la responsabilità personale rispetto alla comunità. «Tutti noi abbiamo una responsabilità», ha detto Papa Francesco. «Tutti, chi una responsabilità piccolina chi una più grande; una responsabilità morale oppure la responsabilità di prendere decisioni». Il nostro futuro non può dipendere solo dagli altri e dagli interessi personali. Serve una conversione anche ecologica. Il denaro non può essere il riferimento assoluto di tutte le nostre scelte sull’ambiente, è nato come strumento e non può diventare un obiettivo. Lo dobbiamo ai nostri figli. Un pianeta in buona salute sarebbe la più grande eredità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA