Un anno fa la tragedia dell’aereo caduto
Ora il segno di rinascita in un braccialetto

Francesca Ongaro, nel nome di Stefano e Marzia l’aiuto alla ricerca sulla leucemia. La forza della famiglia Mecca.

«Sei quel vento che soffia da sempre, ma che riesce a non farmi cadere. Sei l’immenso di un attimo andato, del mio sogno la parte migliore». Come nei versi della canzone di Ultimo «Piccola stella» ci sono le parole non dette e quelle gridate, le ferite, le carezze, l’amore, la nostalgia e tanti ricordi in questo primo anno trascorso dalla famiglia Mecca senza Stefano e Marzia. Il giardino della loro casa, a Gazzaniga, arrampicato sulla collina, è ancora immerso nella stessa luce di quel giorno, il 21 settembre, in cui Francesca Ongaro aspettava con Matteo, 8 anni, il figlio minore, e con il loro cane Spike il ritorno del marito e delle tre figlie da una gita. Niente in quella quiete faceva presagire l’uragano che stava per travolgerli. «Eravamo felici e quasi non ci rendevamo conto di quello che avevamo» racconta. Negli occhi brilla una lacrima silenziosa, una delle tante versate in questi giorni in cui le immagini tornano più vive, come se il tempo si fosse fermato lì, in quel nodo di fuoco e dolore, lamiere ritorte, stanze bianche d’ospedale. Eppure questa famiglia ha fatto tanta strada da allora, un percorso di sofferenza ma anche di trasformazione e di rinascita: «Siamo diventati la famiglia coraggio» spiega Francesca con un sorriso. Nonostante la fatica è riuscita a tenere legati i fili, a essere pilastro mentre sembrava che tutto intorno a lei stesse crollando.

Lo strazio di quel giorno

Ricorda lo strazio di quel giorno: «Sono arrivati i carabinieri. Ho visto che avevano un aspetto serio e teso, il maresciallo conosceva bene mio marito. Mi hanno detto che c’era stato un incidente, che c’era una vittima, senza potermi fornire dettagli. Hanno aggiunto che gli altri erano vivi. I miei cari erano ricoverati in tre ospedali diversi: così è iniziato il mio pellegrinaggio». Ha incontrato prima Chiara, la maggiore, 18 anni, ricoverata all’Humanitas Gavazzeni: «Era coperta di ustioni gravi soprattutto sulle gambe. Si è comportata da eroina perché in quei momenti concitati è riuscita a colpire il finestrino e a sfondarlo con i piedi già feriti. Questo atto di resistenza e gli sforzi della sorella Silvia hanno permesso ai nostri angeli, Franco Defendi e Angelo Pessina, di capire che erano ancora vivi e di portarli in salvo». I due amici passavano proprio in quel momento con l’auto sull’asse interurbano accanto al luogo dello schianto e si sono fermati per offrire soccorso, nonostante il pericolo. Per il loro gesto coraggioso hanno ricevuto un’onorificenza dal Comune di Bergamo, ma poi hanno deciso di donarla alle ragazze sopravvissute, come omaggio per la forza dimostrata.

L’Ave Maria in ospedale

Francesca è arrivata poi all’ospedale di Seriate, dove si trovava Silvia, di 15 anni: «Aveva il volto bruciato - ricorda commossa - ciglia e sopracciglia erano sparite, le labbra non si vedevano più. L’avevano già sedata e intubata, erano pronti a portarla in terapia intensiva, continuavano a dirmi che era viva ma aveva un aspetto terribile e io tremavo di paura. Nel frattempo ho capito che a morire era stata sua sorella Marzia. Non posso dirmi credente, ma in quel momento mi sono buttata in ginocchio e ho gridato un’Ave Maria. In pochi attimi ho sentito un coro intorno a me: medici e infermieri si erano uniti in quella invocazione disperata. Mi ha dato molto conforto, come una piccola scossa in fondo all’anima».Infine, a Bergamo, ha trovato il marito Stefano: «Non ha mai ripreso conoscenza, purtroppo, ma gli parlavo comunque, gli dicevo che aveva fatto il possibile e che grazie alla sua prontezza erano riusciti a evitare un esito ancora più drammatico».

Poi i suoi cari erano stati trasferiti in tre centri diversi per grandi ustionati: Chiara a Padova, Stefano a Verona, Silvia a Niguarda, finché è stato possibile riunirli nella struttura milanese. Francesca ha sperimentato subito una condizione di estrema fragilità, ma anche la vicinanza affettuosa e sollecita di tante persone: «Il giorno dell’incidente i medici continuavano a propormi di assumere sedativi ma io non ho voluto nulla. Volevo esserci per le mie figlie e per mio marito, e affrontare tutto con lucidità, senza tirarmi indietro, anche se mi sentivo sopraffatta. Le nostre famiglie, i fratelli, i cognati, gli amici più cari sono sempre stati presenti e ci hanno aiutato a gestire la situazione, da sola non avrei potuto». La sera, poi, quando rientrava a casa annientata, priva di forze, c’era sempre qualcuno che le faceva trovare una teglia di lasagne, una torta salata, le crespelle: «Mi sembrava di non avere tempo di mangiare né di dormire, ma quei gesti, nella loro semplicità, mi comunicavano affetto, mi facevano sentire che intorno a me c’era una comunità che si prendeva cura di noi in un momento così difficile».

Gli ultimi saluti a figlia e marito

È arrivato il momento di dare l’ultimo saluto a Marzia: «Ho voluto dedicarle lo spazio e il tempo giusto, solo per lei, abbracciarla un’ultima volta anche se non volevano che la vedessi. La ricordo bella, solare, allegra com’era, la porto sempre con me». Dopo qualche giorno di notizie altalenanti purtroppo il 27 settembre Francesca ha dovuto affrontare anche la morte del marito: «Ho sperato fino all’ultimo» sussurra, prima che la voce si spezzi in un sospiro.

Nonostante tutto è riuscita a reagire: «Ero sull’orlo di un baratro. Avrei potuto lasciarmi andare e smarrirmi nella disperazione. Hanno prevalso l’amore e il senso di responsabilità nei confronti dei miei figli, delle nostre famiglie. Ho cercato di stringere i denti e di andare avanti». Proprio lei - che forse più di tutti avrebbe avuto bisogno di appoggio e conforto - si è sforzata di tenere fermo il timone di fronte alla corrente che faceva sbandare familiari, amici, colleghi. Ha potuto contare su persone speciali che in passato avevano vissuto momenti difficili, proprio come lei, e che le hanno donato comprensione e vicinanza, continuando a ripeterle che, come scrive Victor Hugo «Finirà anche la notte più buia e sorgerà il sole».

Chiara e Silvia hanno trascorso quaranta giorni in ospedale, hanno subito diversi interventi, sono state inserite in un percorso sperimentale di chirurgia plastica ricostruttiva con tecnologie laser diretto dalla dottoressa Gaia Lasagna a Niguarda: «Le ustioni - chiarisce Francesca - continuano ad agire sugli strati più profondi della pelle e a causare dolore e fastidio per molto tempo, fino a due anni dopo un incidente. Per questo bisogna continuare le terapie».

È arrivato il momento di ricominciare a vivere, di tornare a scuola, alla routine quotidiana, e di vivere nuove esperienze. «Abbiamo accompagnato Franco Defendi e Angelo Pessina a Roma, al Quirinale, abbiamo incontrato il presidente della Repubblica. È stato un momento intensissimo per la nostra famiglia». Nell’ultimo weekend di febbraio avevano fissato un altro appuntamento: «Abbiamo deciso di fare insieme un breve viaggio in aereo in una città europea, per voltare pagina e superare insieme il trauma del volo. Una specie di rito di passaggio, e abbiamo scelto come destinazione Vienna, che non avevamo mai visitato. È stata un’impresa impegnativa, segnata da tanta fatica, con un grosso carico di ricordi e poca allegria, ma ce l’abbiamo fatta, e questo ci ha dato slancio. Proprio in quei giorni, però, è scoppiata la pandemia. Avevamo paura di non riuscire a tornare».

Il messaggio di Albergoni

Due mesi dopo l’incidente Francesca ha ricevuto un messaggio da Maurizio Albergoni, papà di Federica, giovane di Albino uccisa a 19 anni da una leucemia fulminante nel 2009. In suo nome i suoi genitori hanno fondato un’associazione che svolge attività di sensibilizzazione alla donazione del midollo osseo e sostiene le attività di ricerca dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo (www.associazionefedericaalbergoni.org); proprio in questi giorni sta festeggiando il decimo anniversario. «Mio marito Stefano - ricorda Francesca - prestava le sue competenze di commercialista per aiutare Maurizio. Era rimasto molto colpito dalla sua storia. Così quando lui mi ha scritto l’ho considerato un segno». Nella sua lettera Albergoni la invitava a non chiudersi nel suo dolore, ma ad accettarlo, ad aprirsi agli altri, fino a trasformare la sofferenza perché «producesse frutto» mantenendo vivo il ricordo dei suoi cari.

La catena di solidarietà

Francesca è rimasta colpita: ci ha pensato molto, ha covato questo desiderio nel cuore, poi ha iniziato una nuova avventura partendo da un gesto semplice e spontaneo: realizzare un braccialetto con i colori di Stefano e Marzia, scegliendo l’oro (la luce delle stelle) l’arancione e l’azzurro. «All’inizio - spiega - avevamo pensato di donarlo come ricordo ad amici e conoscenti. Poi però ci è sembrato bello trasformarlo in un piccolo strumento per lanciare un messaggio e aiutare altre persone. Abbiamo pensato proprio all’associazione Albergoni per il legame che aveva con Stefano e perché anche Marzia aveva un caro amico che aveva sofferto di leucemia e poi ne era guarito». Il covid ha rallentato l’iniziativa di solidarietà, ma non l’ha spenta. Nel giorno dell’anniversario dell’incidente aereo, nella comunità di Fiorano Al Serio, alla quale la famiglia è molto legata, dopo la Messa celebrata da don Gimmi Rizzi c’è stata la consegna dell’assegno con i fondi raccolti per l’associazione grazie ai primi mille braccialetti: contribuiranno a sostenere una borsa di studio per un biologo all’ospedale Papa Giovanni. Altri mille sono già pronti (si possono trovare, per esempio, in parrocchia a Fiorano), e con loro continua a viaggiare attraverso il passaparola e i legami di amicizia una storia piena di coraggio e speranza. Così un anno dopo la scomparsa di Marzia e Stefano dalle crepe di un grande vuoto è già germogliata bellezza, il segno di un amore a cui neanche la morte può mettere fine, e che continua a sprigionare forza. Per la famiglia Mecca, come dicono i versi di Ultimo, nella canzone preferita di Marzia, è «la piccola stella che porto nei momenti in cui non ho luce».

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