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Le frasi fatte sono false, non aiutano le soft skill

Ci sono frasi fatte e modi di dire che non aiutano a coltivare le soft skills in azienda. Creano falsi saperi. E proprio perché le competenze sono anche conoscenze, per lo sviluppo delle abilità trasversali è utile intercettare e “disattivare” i modi di dire fuorvianti. Ecco come contrastare la loro diffusione, e trasformare gli spazi aziendali in luoghi cognitivi.

Lettura 15 min.

Sommario

Il bastone e la carota
Per chi sente parlare di persone che “si sono fatte da sole”
Interventi sull’ambiente cognitivo aziendale
Chi fa da sé fa per tre?
Per chi ha a che fare con persone che “non cambiano mai”
Per chi cerca l’equilibrio tra ragione ed emozioni
Per chi adotta il principio “testa bassa e lavorare”

Il bastone e la carota

«Bisogna usare il bastone e la carota»: l’espressione viene spesso utilizzata per indicare un metodo che sarebbe efficace per ottenere risultati anche da persone recalcitranti o in momenti critici.
Nel marzo 2019, ad esempio, sulla Gazzetta dello Sport si leggevano le seguenti parole attribuite a Beppe Marotta, a.d. dell’Inter, nei giorni difficili del caso Icardi (calciatore a cui era stata tolta la fascia di capitano, portando così ad un livello eclatante il conflitto con l’allenatore e lo spogliatoio): «C’è grande ottimismo, bisogna gestire le cose con intelligenza e buon senso usando bastone e carota. Se arrivassimo a chiedere i danni sarebbe un grandissimo fallimento».

Nel marzo 2014, l’allenatore della Juventus, Antonio Conte, si sarebbe espresso in questi termini parlando di Pogba: «Lui sa che fin quando lo allenerò io, userò la carota, ma anche un bastone lungo due metri!». A proposito dello stesso giocatore resta agli atti una dichiarazione analoga dell’allenatore della nazionale francese Didier Deschamps: «con Pogba serve bastone e carota».

Un articolo del marzo 2018 racconta invece di un momento di crisi dell’Inter, che l’allenatore Luciano Spalletti avrebbe affrontato abbandonando la carota (si capisce, dopo avere in precedenza usato bastone e carota).
Se in questo caso abbandonare la carota è stato utile, significa forse che il modello “bastone e carota” non funziona sempre?

Gli esempi si potrebbero moltiplicare e il frequente utilizzo della frase fatta in ambito sportivo è indicativo di come essa sia ormai pervasiva nel senso comune, soprattutto nei casi in cui si parla di performance da migliorare.
Nella frase fatta è implicita una teoria della motivazione e così, a seconda di come viene usata (mettendo l’accento sull’uno o l’altro dei due termini in questione), si possono distinguere approcci differenti. Restando nell’ambito calcistico, si consideri la storiella raccontata dall’allenatore Carlo Ancelotti nel libro intitolato Il leader calmo: «Vi racconto una storiella. Ci sono due tizi, ognuno con un cavallo, e vogliono che il loro animale salti un ostacolo. Uno sta dietro il proprio cavallo con un bastone, lo agita per costringere l’animale a saltare, e quello obbedisce. L’altro è davanti all’ostacolo con delle carote in mano e invita il cavallo a raggiungerlo dall’altra parte, e anche quello obbedisce. Entrambi i cavalli hanno superato l’ostacolo, ma se usi il bastone può capitare che l’animale scalci all’indietro, invece di saltare. La differenza sta tutta qui» (da C. Ancelotti, con C. Brady e M. Forde, Il leader calmo. Come conquistare menti, cuori e vittorie BUR).
Cosa vuol dire Ancelotti? La morale della favola sottolinea l’importanza di mettere a suo agio ogni giocatore, in primis sul piano mentale, creando un buon rapporto di fiducia con l’allenatore.

Ma c’entrano davvero bastoni e carote con la fiducia?

Può essere interessante ricordare, a questo punto, che l’espressione “bastone e carota”, in inglese “carrot-and-stick”, deriva da un’altra, che aveva un significato diverso,carrot on a stick, cioè “carota su un bastone”. Nella forma derivata, l’espressione allude all’utilizzo combinato della carota (come premio) e del bastone (come punizione, ricorso alle “maniere forti”).
Nella forma originale, invece, l’espressione alludeva alla possibilità di fare muovere un asino facendo penzolare davanti ai suoi occhi qualcosa di allettante (la promessa di un oggetto del desiderio); qualcosa che però, per funzionare come forza motrice, non deve essere concesso troppo presto.

Che dire di tutto ciò? Alla luce di quel che ormai sappiamo sulla complessità delle motivazioni e dei comportamenti umani, si tratta di una frase fatta che veicola una visione fortemente semplicistica della vita cognitiva ed emotiva, in quanto, in ultima analisi, paragona le motivazioni e il comportamento delle persone a cui si applica alle motivazioni e al comportamento di un asino testardo e ottuso.

Considerare in questo modo le persone che si vogliono motivare – guardandole con occhiali teorici dotati di lenti così appannate – non aiuta a percorrere le strade per l’engagement di cui abbiamo discusso in un precedente articolo, che si può leggere qui.

Per chi sente parlare di persone che «si sono fatte da sole»

Il biologo Richard Dawkins ha introdotto il termine “meme” per indicare un’unità di informazione capace di replicarsi nei cervelli umani e di propagarsi tra i parlanti. La parola richiama evidentemente il “gene”, l’unità ereditaria fondamentale in campo biologico.

Sviluppando l’analogia, potremmo dire che esiste una “memetica” così come esiste una genetica: in questa prospettiva, le frasi fatte, quelle che passano di bocca in bocca, dette e ridette, possono essere considerate come frammenti di senso temporaneamente vincenti nell’evoluzione memetica.

Tra questi frammenti ce n’è uno che si riferisce alle persone che “si sono fatte da sole”

«Lui o lei si sono fatti da soli»: di solito si dice così di uomini e donne che sono riusciti a realizzare qualcosa di notevole senza aiuti o favori particolari, senza godere di privilegi, partendo da zero o quasi. Si tratta, evidentemente, della traduzione italiana dell’espressione inglese – orientata al maschile – “self-made man”, che alcuni fanno risalire nientemeno che a Benjamin Franklin (1706-1790), diplomatico, politico e inventore arrivato ad essere celebre protagonista della propria epoca, pur essendo nato in una famiglia di modeste condizioni.
Negli Stati Uniti l’Ottocento è il secolo del mito del “self-made man”. Un esempio tra i tanti è un libro pubblicato a New York nel 1858, intitolato proprio Self-made men, il cui autore, Chas C. B. Seymour, decide di raccontare «le vite di più di sessanta persone, che sono diventate importanti nonostante le circostanze avverse».

Fatte queste premesse è abbastanza facile constatare che, in senso letterale, nessuno si è mai fatto da solo.

Per accorgersene è sufficiente verificare di avere un ombelico e ripensare al legame di cui è traccia

Il punto rilevante per noi, però, è che neppure in senso metaforico si può dire che qualcuno si è fatto da solo. Certo, l’espressione “farsi da soli” vuole enfatizzare il ruolo dell’iniziativa individuale e il fatto che a volte la costanza e l’impegno premiano anche quando le circostanze di partenza sembrano molto sfavorevoli. È giusto sottolineare che ciò può accadere, perché ne deriva lo stimolo a darsi da fare “con le proprie forze”, contando su di sé.

Il rischio, tuttavia, è di lasciare in secondo piano la natura profondamente relazionale delle nostre capacità e dei risultati che otteniamo. Ricordarsi che nessuno si è fatto e si fa da solo aiuta a coltivare l’attenzione per gli altri, il riconoscimento e la gratitudine: tutte cose, tra l’altro, che sono importanti in ambito aziendale per sostenere l’engagement.
Abbiamo toccato alcuni di questi punti in questo articolo dedicato alle competenze della leadership.

 

Chi fonda un’impresa, chi la guida, chi dirige una squadra... tutti costoro, per i risultati che ottengono, dipendono anche dalle persone che li accompagnano, al lavoro e fuori, e dal modo in cui sanno stare insieme agli altri.

Pur sottolineando opportunamente il valore della responsabilità individuale, l’idea che ci siano persone che si “fanno da sole” rischia inoltre di esasperare un errore sistematico di giudizio a cui tutti siamo esposti, noto come “errore di attribuzione”: in poche parole, esso deriva dalla nostra tendenza a sopravvalutare la nostra capacità di fare le cose, quando le cose vanno bene, e a sovrastimare i fattori ambientali, quando le cose vanno male.
Per chi vuole approfondire l’argomento segnalo questo breve video, che in circa sei minuti tocca il tema dal punto di vista della psicologia sociale.

Dedicare del tempo ad approfondire queste conoscenze è utile per coltivare le soft skills, perché le conoscenze sono parte integrante delle competenze.

Sapere che esiste il fenomeno dell’errore di attribuzione aiuta a leggere meglio le dinamiche in cui si potrebbe essere coinvolti e a non perdere troppo l’equilibrio, scivolando su giudizi affrettati, così come essere al corrente dell’esistenza del fenomeno dell’aquaplaning può aiutare a stare in guardia in certe situazioni e a ricordarsi che il proprio mezzo potrebbe scivolare sulla strada bagnata.

Interventi sull’ambiente cognitivo aziendale

La morale del precedente paragrafo potrebbe essere riassunta in una frase: “Nessuno si è fatto da solo” (oppure: “Nessuno si fa da solo”).
Questa frase è salutare per una cultura organizzativa attenta al valore delle soft skills e alla creazione di ambienti favorevoli al loro sviluppo. Come metterla in circolazione?

Lo si può fare abbastanza semplicemente, trasformando uno spazio aziendale di passaggio o di uso comune in quello che definirei uno “spazio cognitivo”.
L’ipotesi è questa: uno spazio diventa cognitivo quando richiama e tiene in circolazione idee e “memi” che veicolano delle conoscenze e suggeriscono un modo di vedere le cose.

«Nessuno si è fatto/si fa da solo» potrebbe così diventare una frase da condividere, in un quadro o in un’iscrizione che possa richiamarla alla memoria di chi passa, fissandola tra gli assiomi di una cultura organizzativa attenta ai legami reciproci tra tutti i dipendenti. Alla frase si potrebbe accompagnare un’immagine, illustrazione o fotografia. Se le condizioni lo permettono, si potrebbe chiedere ai dipendenti di fare delle proposte al riguardo, coinvolgendoli così attivamente nella ridefinizione della cultura organizzativa.
Curare questo aspetto è importante perché, come scrive lo psicologo James Hillman in un bel saggio su Il potere (Rizzoli, Milano 2002, p. 34), «le nuove idee sono nuovi modi di vedere».

Disporre immagini e frasi chiave in alcuni punti dell’azienda non è certo una pratica nuova e la ricerca dei precedenti potrebbe portarci lontano di secoli

Ad esempio, fin dal XVI secolo i Gesuiti stabilirono di appendere in alcuni ambienti di passaggio delle loro sedi, come corridoi e anticamere dei refettori, i cosiddetti “emblemi”, cioè combinazioni più o meno complesse di immagini e testi istruttivi su cui riflettere. Si riteneva insomma che fosse un bene, per la “cultura organizzativa” dell’ordine e per la formazione dei singoli, l’esposizione quotidiana a certe frasi e immagini.

Ecco un esempio di emblema, tratto dal Libro degli Emblemi di Andrea Alciato (1531). La scritta latina significa: «Non bisogna ferire nessuno, né con la parola né con i fatti». La figura femminile rappresenta, con una complessa simbologia negli elementi correlati, “Nemesi”, cioè la vendetta o più genericamente il prezzo che si paga ferendo coloro con cui si è in relazione.

 

Il caso dei Gesuiti è interessante perché la loro Compagnia fu notoriamente esemplare per le capacità organizzative sia al proprio interno sia all’esterno. Come dimostrazione di ciò è sufficiente citare il fatto che in meno di vent’anni, attorno alla metà del Cinquecento, la Compagnia riuscì a mettere in piedi una rete di 100 sedi sparse tra Europa, Africa, Indie e America Meridionale.

Chi fa da sé fa per tre?

Può capitare, in alcuni casi, che una persona, lavorando da sola, riesca a fare meglio di tre persone. Dipende dalla natura del compito e da come le tre persone in questione riescono a collaborare.
Preso alla lettera, il modo di dire “chi fa da sé fa per tre” significa che 1 = 3.
Se le cose andassero sempre così, sarebbe un problema serio per un’azienda avere 3 persone che rendono, lavorando insieme, come potrebbe rendere 1.

Data la gravità della questione è il caso di analizzarla meglio.
È certo che tre persone ben coordinate, in moltissime circostanze, possono fare ben di più di quel che uno solo può fare. Insomma, ci sono senz’altro circostanze in cui3 > 1.

C’è però un’aspirazione maggiore da coltivare. Uno dei principi fondamentali dei sistemi complessi stabilisce che “il tutto è più della somma delle parti”. Ciò può significare che, avendo tre individui, dalla loro collaborazione dovrebbe risultare qualcosa di più del 3.

In numeri, ci sono casi in cui 1+1+1 > 3. Come arrivare a tanto?

Per rispondere alla domanda bisogna essere più precisi a proposito dei sistemi complessi.
Si dovrebbe dire, con Edgar Morin, che il tutto (il sistema) è al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno della somma delle parti: è qualcosa di più, perché nel tutto organizzato emergono proprietà e possibilità d’azione che le parti da sole non hanno; è qualcosa di meno, perché il tutto organizzato impone dei vincoli alle parti, inibendo l’espressione di alcune loro caratteristiche.
Secondo Morin, ciò accade anche nelle organizzazioni sociali, dove vincoli di vario tipo (giuridici, politici, economici ecc.) limitano l’espressione di alcune caratteristiche e possibilità dei singoli, subordinandole al funzionamento complessivo del sistema.

Fatte queste premesse, è importante sottolineare che non è sempre vero che chi fa da sé fa per tre. Abbiamo già toccato l’argomento guardando ad alcune situazioni tipiche della vita aziendale, come le riunioni: ci sono condizioni che inibiscono e condizioni che favoriscono l’emergenza dell’intelligenza collettiva.

 

Ammettere l’esistenza di questa intelligenza significa riconoscere che, affrontando un problema, un gruppo di persone può sviluppare più intuizioni e ipotesi di soluzione di quelle che, nello stesso tempo, riuscirebbe a sviluppare da solo ogni singolo componente del gruppo.

A fare la differenza, ogni volta, è il modo in cui viene impostata la relazione tra i singoli e il gruppo. Quando più teste ragionano bene insieme cresce la probabilità che emergano idee che nessuna singola testa avrebbe avuto ragionando da sola: così il sistema diventa “più della somma delle parti”.

Le considerazioni fatte fin qui segnalano la necessità di maneggiare con cautela un’altra frase fatta, quella secondo cui è bene “pensare con la propria testa”

Dagli studi sull’intelligenza collettiva si ricava infatti che è possibile pensare meglio con la propria testa anche grazie agli altri e quindi insieme agli altri. Pensare bene con la propria testa non significa perciò pensare “di testa propria” e da soli.

Del resto, può capitare di incontrare persone che ritengono di pensare con la propria testa e stanno subendo in realtà, senza accorgersene, forti condizionamenti dall’esterno, da pensieri pensati da altri. È una possibilità a cui siamo tutti continuamente esposti, perché, come diceva il filosofo Ludwig Wittgenstein, arriviamo a formarci dei pensieri con le parole che “svolazzano” attorno a noi. In altri termini: sulla formazione dei nostri pensieri pesa quel che si dice e si pensa attorno a noi, quel che leggiamo, le storie che sentiamo raccontare e così via.

Con riferimento alla vita organizzativa, diverse indagini hanno rilevato che la “ricchezza” del pensiero circolante in un’azienda – che è legata ad esempio alla qualità delle riunioni e alla qualità dell’engagement dei dipendenti – risente positivamente dell’esistenza di un clima di sicurezza psicologica. Una delle conseguenze positive di tale clima è la possibilità di essere franchi, cioè la franchezza con cui ci si può rivolgere agli altri, in condizioni di reciproco rispetto.

Morale della favola: è importante creare ambienti in cui il fare da sé e il fare con gli altri non entrino in competizione, ma si potenzino reciprocamente

Se il tutto può essere più della somma delle parti, si tratta di creare le condizioni organizzative per cui uno più uno possa fare più di due e, di conseguenza, 1+1+1 > 3.

Dal nostro punto di vista, sono le soft skills dei singoli a poter fare la differenza, perché incidono sulla qualità delle relazioni interne di ogni sistema di cui quei singoli entrano a fare parte.

Si potrebbe approfondire la questione con un incontro di formazione dedicato ai propri dipendenti e arrivare con loro a mettere a punto un quadro pro-memoria, che risulterebbe forse enigmatico per i non iniziati ai “poteri” delle soft skills, in cui siano riportate le seguenti uguaglianze e disuguaglianze:

 

Per chi ha a che fare con «persone che non cambiano mai»

C’è il collega che «non capisce mai», anche se gli si dice la stessa cosa mille volte.
Ci sono quelli che «non cambiano mai atteggiamento» e quelli che «sono sempre gli stessi».
Con loro, si dice, «non c’è niente da fare».

Quanto c’è di vero? Cos’è che non cambia e che cosa può cambiare?

Sappiamo che sul piano biologico e neuro-cognitivo non possiamo non cambiare, volenti o nolenti. Sappiamo anche, però, che esistono “schemi mentali” e “schemi dell’interazione” che tendiamo a ripetere, come se fossero “incorporati” in noi. Li abbiamo, come abbiamo un’andatura caratteristica, un modo tipico di stare seduti, una “piega” riconoscibile nel compiere certe azioni.

Tuttavia si può lavorare per cambiare (almeno in parte), finché possiamo imparare a fare un uso diverso di noi stessi

Quando si tratta di relazioni interattive frequenti con le stesse persone, come può capitare in famiglia o sul lavoro, bisogna tenere presente che le persone possono cambiare e che uno dei punti su cui fare leva per favorire il cambiamento è il modo di considerare la relazione.

Riprendiamo un esempio proposto da Paul Watzlawick e colleghi, di cui è protagonista una coppia di coniugi: la moglie si lamenta perché il marito si chiude sempre in se stesso, mentre il marito si lamenta perché la moglie brontola sempre. Entrambi pensano di avere a che fare con una persona che non può cambiare, ma parte del problema sta proprio nel considerare le cose soltanto in questo modo (nel non credere che l’altro possa cambiare), mentre un’altra parte del problema sta nel fatto che i due “punteggiano” diversamente la sequenza di eventi.

La situazione è riassunta in questo schema:


Ci sono bassissime possibilità che lo schema interattivo cambi, a meno che qualcuno o qualcosa non intervenga dall’esterno per modificarlo (un consulente, una situazione di emergenza), o a meno che almeno uno dei due non impari a comunicare sul modo in cui si sta comunicando, trovando creativamente una via d’uscita.

Tutto ciò ha risvolti importanti dal punto di vista organizzativo: ci sono infatti studi che mostrano come la capacità di gestire bene le aspettative sulle potenzialità dei propri collaboratori aiuti nel conseguire miglioramenti delle performance, mentre la sfiducia nella possibilità di migliorare certe dinamiche (come se non potessero cambiare) induce a non impegnarsi per cambiarle (effetto della profezia che si auto-avvera). Insomma: c’è sempre spazio per il cambiamento. Talmente tanto spazio che, come avvertiva lo storico Arnaldo Momigliano, «la misura dell’inatteso è infinita».

Per chi cerca l’equilibrio tra ragione ed emozioni

Si sente dire che in certe situazioni è importante “essere razionali” e non lasciarsi “condizionare, influenzare, coinvolgere dalle emozioni”. Poi capita di celebrare discorsi che propongono un approccio diverso all’impresa e all’innovazione, come il famoso intervento di Steve Jobs a Stanford, con l’invito ad essere “affamati” e “folli” (Stay Angry, Stay Foolish). A proposito, può essere interessante ripercorrerlo per contestualizzare l’esortazione:

Forse la soluzione sta nel mezzo, in una buona combinazione tra l’essere “razionali” e l’andare “fuori dalle righe” tracciate dal buon senso? Non è così semplice, perché non esiste una sola dimensione della razionalità: scelte che potrebbero essere razionali in vista di un obiettivo potrebbero non esserle in vista di un obiettivo diverso, ma chi decide la razionalità degli obiettivi? Ciò che appare razionale a breve termine potrebbe non apparire tale guardando al medio o al lungo termine. E poi sappiamo che la razionalità dei soggetti reali è limitata. Lo spiega molto bene Gerd Gigerenzer, direttore del Max Planck Institute for Human Development e direttore dell’Harding Center for Risk Literacy a Berlino:

In sintesi, essere razionali significa prima di tutto fare I conti con i propri limiti, ricordandosi di non potere calcolare tutto e che non tutto è calcolabile. E ricordando anche quel che dice Karl Weick in uno dei suoi testi più noti (The Social Psychology of Organizing, tradotto in italiano con titolo Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi): «Le organizzazioni, a dispetto della loro evidente preoccupazione per i fatti, i numeri, l’obiettività, la concretezza e l’affidabilità, sono in realtà sature di soggettività, astrazione, supposizioni, espedienti, invenzioni e arbitrarietà… proprio come tutti noi. Sono le organizzazioni stesse a creare gran parte di ciò che le turba».

E le emozioni? Cosa significa pensare di restarne “distaccati”?
Tale pretesa, insita in alcuni modi di dire comuni, segnala più che altro una sorta di analfabetismo sull’argomento.

Gli studi del neuroscienziato Antonio Damasio hanno evidenziato che i deficit sul piano delle emozioni (dovuti ad esempio alla lesione di aree cerebrali coinvolte nella loro elaborazione) possono compromettere seriamente le dimensioni personali e sociali del ragionamento, anche qualora siano preservati il linguaggio, la memoria operativa e la capacità di attenzione.

Le carenze nella gestione delle emozioni si traducono in carenze in termini di ragionevolezza.
D’altra parte, quando esortiamo qualcuno dicendogli «Non avere paura!» stiamo trattando erroneamente l’emozione come qualcosa di esterno che ci viene addosso (rispetto a cui sarebbe possibile proteggersi con l’impermeabile adatto) o come qualcosa di interno da espellere a piacere.
In realtà, non possiamo non avere paura, perché l’attivazione dei sistemi emozionali è automatica e precede consapevolezza e linguaggio.
Ciò che possiamo imparare a fare è gestire il modo in cui “sentiamo” le emozioni e ne “risentiamo”.
Per questo, spesso, abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti e di buone relazioni che ci sostengano.

Per chi adotta il principio: «Testa bassa e lavorare»

«Testa bassa e lavorare!». Quattro parole per riassumere un approccio al lavoro che nasconde, per così dire, una filosofia dell’abnegazione e della fatica. È vero: ci sono situazioni in cui non c’è tempo da perdere e non ci si può fermare per guardarsi intorno. Ci sono situazioni in cui si deve “dare tutto” e “tirare al massimo”.
Nel ciclismo è il momento della volata: si pedala a testa bassa, tesi al massimo per arrivare primi al traguardo. In queste condizioni il rischio di incidenti solitamente si alza, ma i professionisti sanno cautelarsi abbastanza bene.
Nei primi giorni del mese di luglio 2019 sull’argomento si sono confrontati a distanza due allenatori di calcio: la conferenza stampa di Conte, nuovo allenatore dell’Inter, è stata riassunta nel motto “testa bassa e pedalare”; il giorno seguente, quasi a fare da contrappunto, il nuovo allenatore del Milan, Giampaolo, ha riassunto la sua filosofia nella frase “testa alta e giocare a calcio”.

Cosa cambia nei due casi?
Più che schierarsi da una parte o dall’altra, è importante soffermarsi su un effetto delle frasi fatte che qui si coglie bene: esse inducono a semplificare le cose e a vederle in termini di “aut aut”, o così o altrimenti.
“Testa bassa e lavorare” significa che “o si fa così o non si ottiene quel che si vuole”. “Bastone e carota” spinge a pensare che o si usano il bastone e la carota, o non si ottiene quel che si vuole; oppure, per chi cerca un approccio diverso, induce a pensare che l’alternativa consista nell’usare soltanto il bastone o soltanto la carota.
In sintesi, le frasi fatte inducono a semplificare troppo, mentre le soft skills si nutrono di complessità e di consapevolezza della complessità.

Venendo all’argomento di questo paragrafo, la testa può essere alta o bassa a seconda dei casi: l’importante è restare sensibili alle esigenze di cambiare ritmo, passando dal basso all’alto e dall’alto al basso ed esplorando le vie intermedie, dove gli sguardi di chi lavora si incrociano e ci si possono dire con franchezza le cose in faccia. Tutto ciò per non commettere l’errore di irrigidirsi in una sola posizione.

Checklist

Verifica come puoi disinnescare nella tua azienda modi di dire che veicolano convinzioni sbagliate. E verifica se hai i meccanismi per disattivare il “falso sapere” implicito.

  1. Annotare le frasi fatte e i luoghi comuni in circolazione nella propria azienda, esaminandoli con lo sguardo critico suggerito nell’articolo

  2. Ipotizzare un percorso di formazione sulle frasi fatte e sul “modo di vedere” che esse veicolano, collegando il tutto allo sviluppo delle soft skills

  3. Tentare qualche intervento, anche piccolo, per fare di uno spazio aziendale uno spazio cognitivo, partendo dalle questioni che appaiono più rilevanti per la cultura organizzativa che si intende promuovere

  4. Coinvolgere i dipendenti, attraverso percorsi di formazione opportunamente guidata, nel riallestimento “cognitivo” degli ambienti di lavoro

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