Addio a Mario Giudici, dipingeva l’anima
«Senza materia non riuscirei a vivere»

Si è spento domenica alla soglia dei 70 anni l’artista di Sovere, personaggio carismatico, fornaio a Endine Le radici nella famiglia, la «lotta» con la materia, l’incontro con la filosofia, lo sguardo di Papa Giovanni.

Mario Giudici era un’ anima eletta, ma non sapeva di esserlo. Se l’ è portato via il coronavirus, «la bestia» avrebbe detto lui. Se n’ è andato lasciando nel dolore la moglie Mirella Andreoli, i figli Daniele e Gianluca, fratelli e sorelle, uno stuolo di nipoti e nello smarrimento tanti amici che aveva saputo conquistare con quei suoi modi bonari, la sua sincerità, le sue idee, in fondo in fondo il suo carisma.

Giudici se n’ è andato la notte della quarta domenica di Quaresima, quella in cui il Vangelo ricorda come Gesù diede la vista a un cieco: «Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco» . E nel messaggio evangelico c’ è tanto di Giudici da Sovere, che avrebbe compiuto 70 anni mercoledì prossimo, fornaio di professione, ma soprattutto artista e palombaro dell’ animo.

«Senza materia non riuscirei a vivere» diceva Mario. Viveva il suo lavoro nel forno di Endine come qualcosa di sacro. Affondare le mani nell’ impasto per lui era lo stesso che amalgamare terra, polvere e colla con le quali dare forma e vita alle sue opere. Se n’ è andato di notte, in una stanza di ospedale a Esine dove era stato ricoverato giovedì sera con poche linee febbre, ma il respiro corto.

La sera prima aveva mandato ad alcuni suoi amici più stretti un messaggio con il telefonino con l’ immagine di uno dei suoi ritratti di Papa Giovanni: «L’ ho riappesa all’ entrata dell’ appartamento che protegga col suo sguardo benevolo tutte le nostre famiglie».

Da allora pochi hanno avuto la fortuna di scambiare qualche altro messaggio. Lui che viveva la notte e all’ alba assisteva con occhi disincantati all’ uscita delle michette dal forno, alle 7 in punto lanciava il suo messaggio quotidiano via whatsapp, piccole perle, un saluto, un disegno su un foglio di una vecchia agenda, un aforisma che gli era nato nella mente. Negli ultimi tempi mandava disegni della Danza macabra di Clusone, della deposizione di un Cristo. In un messaggio del 14 marzo scriveva a tutti «.sedimentare... la parola che mi viene appropriata, piano piano, ora e nel prossimo futuro, capire cos’ è successo, pensare ai nostri errori, all’ abbandono dei valori che ci ha contraddistinto per secoli, alle decisioni prese per favorire la quantità e non la qualità della vita».

Molti lo avevano conosciuto lo scorso ottobre a Fontanella di Sotto il Monte dove nella quiete dell’ abbazia aveva tenuto una grande mostra con una galleria di ritratti di Papa Roncalli. Un appuntamento per la rassegna «Molte fedi sotto lo stesso cielo» al quale erano accorsi anche il filosofo Massimo Cacciari e don Antonio Fedrighini di Solto Collina, le sue due guide che lo avevano aiutato a districare la matassa delle sue riflessioni. «La filosofia mi ha aiutato a diradare le nebbie della mia arte», ci disse una volta. La filosofia era l’ anello di congiunzione fra le sue due arti, quella bianca come la farina, quella più concettuale travasata su una tela.

Quella per il pane era stata una passione antica e una scelta obbligata in un famiglia con 10 bambini da sfamare. Rievocava i consigli di una maestra elementare, le sgroppate come portapane con una bici pesante 10 chili più di lui. Una vita insomma di sacrifici, «ma senza materia, senza toccare, senza sentire, sarebbe apatica» diceva Giudici. Per questo aveva necessità di far lievitare la sua creatività su un quadro, una visione spesso dolorosa anche questa come quella serie di volti di Giovanni XXIII ripetuti all’ infinito come a scandagliare l’ anima del pontefice.

A Giudici piaceva viaggiare.

Amava gli spazi sconfinati, gli orizzonti senza una fine, le luci basse dell’ aurora e l’ esplosione del sole, che come al solito ritraeva sui taccuini di viaggio dopo una giornata a girovagare. Un sasso della Terra Santa o un po’ di polvere delle grotte di Lascaux per lui avevano la stessa valenza, qualcosa di ancestrale, di primordiale, di intimo, di sacro. La vita offerta a una ricerca, infinita, di ciò che è l’ origine.

Per un destino spietato, il giorno prima della morte di Mario, era morta una sorella di 67 anni e poi un cognato entrambi di Clusone. Fra i tanti che non sanno darsi pace, c’ è il nipote Marco al quale era particolarmente affezionato. C’ è una foto che li ritrae assieme. È l’ ultimo selfie scattato sabato scorso, entrambi con le mascherine sul furgone del pane, che insieme andavano a consegnare: il nipote e quel nonno immenso un po’ anche di mole, di parole, di pane e pensieri.

Nei giorni successivi al primo contagio di Codogno, Mario rassicurava gli amici, a cui nel cuore della notte nel nido del suo forno, spediva visioni e pensieri. E a chi gli chiedeva conforto nello smarrimento, mandava parole, lunghe riflessioni, bozzetti da cui sarebbero altri quadri, a cui avrebbe messo mano in qualche successiva notte tra il sabato e la domenica, quando il forno dorme e lui attaccava con materia di ogni sorta il suo dialogo con la tela vuota. «Girava» anche canzoni e l’ ultima è un testo che può, a buon ragione, intendersi come l’ ultimo canto di Mario Giudici: «L’ ombra della luce» in cui un altro eletto - Franco Battiato -, riepiloga il senso di ogni cosa: «Riportami nelle zone più alte, in uno dei tuoi regni di quiete, è tempo di lasciare questo ciclo di vite. E non abbandonarmi mai. Non mi abbandonare mai».

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