Dal Cts misure a zone, ma arrivò il lockdown
Verbali desecretati, mancano sulla Val Seriana

Cinque verbali, oltre 200 pagine, un fiume d’inchiostro attraverso il quale il Comitato tecnico scientifico tasta il polso all’Italia nei giorni in cui il Paese è sotto scacco del Covid-19. I verbali, ora desecretati dalla Presidenza del Consiglio, nella mattina di giovedì 6 agosto sono stati pubblicati sul sito della Fondazione Einaudi.

Individuare «due livelli di misure di contenimento”: una per «i territori in cui si è osservata ad oggi maggiore diffusione del virus» e una per «l’intero territorio nazionale»: il 7 marzo scorso, con l’epidemia di coronavirus in piena esplosione, il Comitato tecnico scientifico proponeva al governo di dividere l’Italia in due: da una parte l’intera Lombardia e le province del nord più colpite, dall’altra il resto del paese. Una scelta che l’esecutivo fece sua per 24 ore, virando poi il 9 marzo sulla scelta del lockdown totale. La ricostruzione di quelle ore convulse emerge dai verbali del Comitato tecnico scientifico desecretati dopo la richiesta della Fondazione Einaudi, che ne ha pubblicati cinque sul proprio sito.

Tra questi non c’è però il verbale numero 16 del 3 marzo (che non era stato chiesto), quello in cui i tecnici affrontarono la questione della chiusura di Alzano e Nembro, i due comuni in provincia di Bergamo in cui si erano registrati centinaia di casi. Sulla mancata istituzione della zona rossa la procura lombarda ha aperto un fascicolo e ha già sentito il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. «Ho chiarito tutti i passaggi nei minimi dettagli» spiegò il premier subito dopo l’audizione con i magistrati sostenendo che non dichiarare i due comuni zona rossa e decidere di chiudere l’intera Lombardia due giorni dopo fu una scelta politica che arrivò dopo un confronto all’interno del governo tra l’esecutivo e gli esperti, condivisa con la regione Lombardia che, come previsto dalla legge, avrebbe potuto agire autonomamente.

L’8 marzo, alle 3 del mattino, il premier annuncia infatti il Dpcm che dispone la zona rossa per la Lombardia e altre 14 province (Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia e Rimini in Emilia Romagna, Pesaro e Urbino nelle Marche, Alessandria, Asti, Novara, Verbano Cusio Ossola e Vercelli in Piemonte, Padova, Treviso e Venezia in Veneto) dove vanno applicate «misure rigorose». Ma il giorno dopo, stavolta non alle 3 di notte ma alle 22, Conte illustra un nuovo provvedimento, il Dpcm #iorestoacasa con cui di fatto viene imposto il lockdown con il divieto di spostamento in tutta Italia, firmato poco prima della mezzanotte e pubblicato in Gazzetta ufficiale. Due giorni dopo, l’11 marzo, il governo vara l’ulteriore stretta: chiusi bar, ristoranti, tutti i negozi di vendita al dettaglio, centri commerciali, parrucchieri, mercati; restano aperti solo servizi essenziali: negozi alimentari, farmacie, trasporti pubblici, banche, poste.

Ma quali erano le linee indicate dal Comitato? Già il 28 febbraio gli esperti avevano suggerito di rivedere in maniera più restrittiva le misure per le tre regioni più colpite. «Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto presentano - si legge nel verbale di quella riunione - una situazione epidemiologica complessa attesa la circolazione del virus, tale da richiedere la prosecuzione di tutte le misure di contenimento già adottate, opportunamente riviste». Nel verbale di una settimana dopo, quello appunto del 7 marzo, gli esperti evidenziavano invece che, mentre nelle zone rosse (all’epoca c’erano solo Vo Euganeo e 11 comuni della provincia di Lodi) i dati epidemiologici rilevavano una «lieve flessione nell’incremento dei casi», si assisteva ad un «aumento dell’incidenza» dei casi «in aree precedentemente non rientranti nelle zone rosse». Per questo veniva indicata la divisione dell’Italia in due e ribadita la «necessità di adottare tutte le azioni necessarie per rallentare la diffusione del virus». Il Comitato individua l’intera Lombardia e 11 province come le zone in cui applicare queste azioni «più rigorose». Dunque le stesse aree poi indicate nel Dpcm dell’8 nel quale però si aggiungono tre province piemontesi (Verbano Cusio Ossola, Novara e Vercelli).

Cosa ha spinto il governo, neanche 24 ore dopo, a chiudere l’Italia intera? Molto probabilmente le indicazioni del Cts contenute nel verbale dell’8 marzo stesso, che non è ancora stato reso pubblico. Di certo c’era che quel giorno si registrò il più alto numero di vittime dall’inizio dell’emergenza - 133, che fecero balzare l’Italia al secondo posto al mondo per numero di morti dopo la Cina - 1.326 malati in più e 83 ricoveri in più nelle terapie intensive in 24 ore. «Non c’è una parte dell’Italia completamente immune - disse il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro in conferenza stampa - ci sono parti d’Italia dove il virus al momento circola meno e dunque dipende dai nostri comportamenti quanto circolerà».

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