Diga del Gleno, 95 anni fa il disastro
Ecco come L’Eco raccontò la tragedia

Intorno ai due tronconi quasi intatti della diga del Gleno ancora oggi nascono racconti: quelli tramandati da chi «il Disastro» l’ha vissuto in prima persona; quelli di chi quella storia l’ha sentita solo raccontare e in qualche modo l’ha fatta sua.

Ma anche quelli di coloro che a quel luogo, teatro 95 anni fa (era il primo dicembre 1923) di una delle più grandi catastrofi della storia della Bergamasca, sono legati perché si sentono parte di un passato comune, della storia di un’intera valle.

L’Eco di Bergamo raccontò il disastro con una prima pagina che non poteva essere solo cronaca. «L’ondata tremenda di distruzione che è passata su paesi e contrade, pesa come un incubo sopra tutti, sopra ciascuno di noi. La penna ci trema tra mano e segna, a stento le sue linee, intingendosi nel calice amarissimo di una desolazione che non ha confronto».

Davanti a ciò che rimane della diga i ricordi che arrivano dal passato si intrecciano ai significati del presente, e insieme vengono proiettati nel futuro. È questo uno dei significati del progetto «Gleno. Archivio della memoria – una comunità di eredità» promosso dalla Pro Loco di Vilminore e dalla biblioteca comunale Manara Valgimigli con il sostegno del Comune di Vilminore e di Regione Lombardia, i cui primi risultati verranno presentati sabato 1° dicembre alle 16,30 nella sala consiliare del palazzo pretorio di Vilminore.

Il progetto si pone l’obiettivo di raccogliere tutto il materiale documentale e fotografico esistente sulla storia della diga, di ampliarlo e di restituirlo alla comunità attraverso la digitalizzazione del patrimonio e la sua pubblicazione su un portale web, fruibile da chiunque.

Era il 1° dicembre del 1923 quando, alle 7,15 del mattino, la diga appena realizzata sulla valle del Gleno si ruppe, scaricando a valle circa 6 milioni di metri cubi d’acqua e fango che travolsero e cancellarono diversi paesi, sia in Val di Scalve che in Valle Camonica. La diga, unica nel suo genere perché «mista», realizzata utilizzando due tecniche costruttive diverse (prima a gravità, poi ad archi multipli), cedette e portò a valle distruzione e morte, travolgendo gli abitati di Bueggio, Dezzo, Gorzone, Corna e Darfo. Il tragico avvenimento segnò la storia della valle e rimase impresso nell’immaginario collettivo, tanto che nei decenni successivi sono stati tanti i lavori di ricerca proposti con l’obiettivo di ricostruire gli avvenimenti e di farne memoria.

Tra le altre testimonianze c’è anche quella di Francesco Morandi, di Barzesto, che a quasi cent’anni ricordava ancora con precisione come era ridotto l’abitato di Dezzo qualche giorno dopo il disastro: «Arrivati nel paesino ricordo tantissima gente. Tanti fascisti, tutti in divisa, scavavano, con pale, rastrelli, con qualsiasi cosa. Noi bambini ci guardavamo intorno. Ci avvicinammo a un gruppetto di persone che scavavano e stavano dissotterrando un piccolo corpicino che era rimasto sepolto nel fango: era una bambina, le stavano pulendo il viso con le mani. Mio padre mi portò via appena capì cosa stavano dissotterrando, ma io mi sognai di quella bambina per tante, tante notti».

Alcune testimonianze però dovevano ancora essere raccolte, come quella di Carolina Novelli, all’epoca aveva 8 anni, oggi ne ha 103 e nelle stanze della Fondazione Bartolomea Spada di Schilpario è stata intervistata nelle scorse settimane dai responsabili del progetto: la sua voce si aggiungerà a quelle raccolte in tutti questi anni. «Il papà – dice – lavorava nel forno al Dezzo. Eravamo molto spaventati perché avevamo paura di non vederlo più, che fosse rimasto anche lui vittima del Gleno. Allora abitavamo di fronte al sagrato della chiesa di Azzone e con la mamma ci eravamo messi proprio sul sagrato, nella speranza di vederlo arrivare. Che sollievo vederlo sventolare un fazzoletto bianco in una radura nel bosco sottostante: aveva avuto paura e si era rifugiato in alto, così si era salvato».

Insieme alle testimonianze (registrate, filmate, trascritte e digitalizzate) ci sono anche tanti documenti e tante fotografie a cui si sta cercando di dare ordine. «Abbiamo recuperato – spiega Loris Bendotti, antropologo responsabile del progetto – documenti e fotografie da chi sapevamo avere materiale sul Gleno. La Fondazione Micheletti di Brescia ci ha concesso 10 fotografie inedite da poter pubblicare sul sito (dal fondo Amalia Conti, che contiene fotografie di un ingegnere che lavorava alla Diga, ndr)». Mettere ordine tra le carte però non era l’unico obiettivo. «Volevamo avviare – continua – un percorso che partisse da ora e continuasse nel futuro: attraverso la pagina facebook “Gleno. Una comunità di eredità” chi vuole può contribuire a lasciare il proprio ricordo, le proprie sensazioni sulla diga, perché vorremmo capire i significati che la gente dà a questo luogo oggi. Stupisce positivamente come ci sia ancora tanto attaccamento a questa storia, che è ancora parecchio sentita e non solo in valle».

© RIPRODUZIONE RISERVATA