Il malaffare che frena la crescita del Paese

ITALIA. L’industria italiana da sola vale 1200 miliardi dei quali 670 vanno all’esportazione. La Cina è passata dal 4% della manifattura mondiale alla fine degli anni novanta al 30% di oggi. Fallimenti di aziende, disoccupazione e ristrutturazioni, questo il prezzo in Italia.

Un intero corpo sociale in Europa, il cosiddetto ceto medio, ha lasciato per dare posto agli ottocento e più milioni di cinesi approdati al nuovo benessere. Adesso la sfida si ripropone. È la trasformazione immateriale, fatta di innovazione, brevetti, intelligenza artificiale, software e quindi formazione cioè scuole, università, centri di ricerca e sviluppo. Ci vogliono investimenti e capacità di attrarre capitali per rendere il Paese interessante per chi vuole produrre in Italia. E non parliamo di assemblaggi di pezzi costruiti all’estero.

Ci vogliono investimenti strategici che forniscano strutture in grado di creare plus valore. In Germania lo Stato tedesco ha messo mano al portafoglio e finanziato con dieci miliardi una fabbrica di chip dell’americana Intel. A Magdeburgo si ripromettono una fioritura a cascata di centinaia di imprese tarate sulla microelettronica. Con centri di ricerca che permetteranno all’industria tedesca di non perdere il contatto con le nuove tecnologie e di implementare le conoscenze.

L’Italia ha difficoltà a sostenere spese di questo tipo, non ha spazi di bilancio. Deve giocare su altri fattori, meno burocrazia, semplificazione tributaria, velocità delle procedure di autorizzazione, giustizia veloce, ma soprattutto: il controllo del territorio. Per il turista affascinato dal paesaggio, dalla storia, dai siti archeologici, dall’arte il prezzo extra budget come i ritardi, le infrastrutture fatiscenti, gli scippi, il disordine sociale, il degrado del decoro urbano rientrano nell’esotico della vacanza. Ma quando si tratta di denaro che si investe con proiezione duratura nel tempo le coordinate devono essere certe: in primis la sicurezza che nessuno si presenti alla porta e pretenda un pizzo, certezza del diritto, efficienza della rete ferroviaria, ospedali e personale medico qualificati, pratiche amministrative snelle e niente corruzione.

Oliare a suon di bustarelle l’impiegato o il politico compiacente non fa parte del catalogo. L’ Italia è l’unico Paese in Europa dove sono presenti ben quattro organizzazioni criminali: la mafia in Sicilia, la ’ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania e la Sacra corona unita in Puglia. Tutte associazioni a delinquere che operano sul territorio, hanno un inserimento sociale e esercitano un’influenza a volte determinante sulle attività professionali e produttive e sulla politica. In Germania il fenomeno è sempre stato derubricato a tipica espressione patologica del malessere italiano. Fino a tre anni fa. Cioè sino a quando si è scoperto che dopo l’Italia il Paese più infiltrato dalla malavita organizzata italiana era proprio la Repubblica Federale. Mancano i dati, visto che nessuno si è mai preso la briga di raccoglierli, ma il ministero delle Finanze tedesco li quantifica in miliardi di euro.

Christian Lindner al tempo del governo Draghi è venuto a Roma e ha chiesto un incontro con l’allora comandante generale della Guardia di Finanza Giuseppe Zafarana. Adesso si sa che a Berlino regna «Germafia». Il neologismo creato dal giornalista italo-tedesco Sandro Mattioli. Per l’Italia una buona notizia. Le riforme necessarie per render il territorio, soprattutto al Sud, appetibile ai grandi investitori sono possibili con l’aiuto dell’opinione pubblica. Quella italiana è spesso distratta, quella tedesca è lenta ma non molla, anche dopo anni, la presa. Per i governanti italiani onesti l’aiuto internazionale che mancava.

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