La sanità al centro del voto lombardo

Il commento. La sanità post Covid è stato senza dubbio il tema più dibattuto della campagna elettorale per la presidenza di Regione Lombardia. E non poteva essere altrimenti visto che l’argomento - delicatissimo e molto complesso - si presta in modo perfetto ad essere strumentalizzato, come in effetti è stato fatto, non solo in queste ultime settimane, ma anche durante la pandemia, e fin dai primissimi giorni, con un (inopportuno) tempismo politico che dovrebbe far riflettere.

La deriva populista in tema di salute e di politica sociosanitaria è davvero dietro l’angolo. Comprensibilmente, se guardata dal punto di vista del cittadino/elettore, ma deprecabile se alimentata da chi i problemi è chiamato (o vorrebbe essere chiamato) a cercare di risolverli. Va da sé che se fosse per noi utenti, saremmo tutti ben contenti di avere un mini ospedale in ogni quartiere, dove poter usufruire - senza attese e senza mettere eccessivamente mano al portafogli - di tutti quei servizi di cui abbiamo sempre più bisogno. Ma questo è ovviamente impossibile. Il problema vero è che non esiste un’unica ricetta per curare la sanità lombarda (indubbiamente malata, ma non in fin di vita, diciamocelo onestamente), ed è molto più verosimile che sia necessario comporre un puzzle prendendo i pezzi tra tutti quelli proposti dalle forze politiche in corsa, perché le variabili sono così tante che metterle tutte in fila è peggio che far «quadrare» il cubo di Rubik.

L’età media si allunga, le malattie un tempo inguaribili oggi sono sempre più curabili, e quelle che una volta lo erano «a tempo» sono diventate croniche, consentendo di vivere a lungo senza rischiare la vita. Il tutto grazie ai continui progressi della Medicina e dei farmaci che mette a punto, sempre più efficaci, sempre più mirati al genere del paziente, ma spesso sempre più costosi. E se prima erano destinati a un ridotto numero di malati, oggi lo sono per una platea sempre più ampia. Banalmente poi - grazie all’obbligo delle cinture di sicurezza in auto, all’uso del casco e dei «gusci» a protezione della colonna vertebrale per chi viaggia in moto, a terapie intensive ospedaliere sempre più sofisticate - non è più così impossibile sopravvivere ai traumi della strada, anche ai più violenti, pur con conseguenze pesantemente invalidanti con cui si può convivere per molto tempo.

Farmaci biologici, anticorpi monoclonali, vaccini molecolari, protesi e ausili ipertecnologici, cure palliative, case di riposo, comunità di recupero... Tutto ciò ha un costo, anzi, un costo enorme, senza contare le necessità della ricerca e dei bisogni dei più fragili, letteralmente esplose dopo il Covid (si pensi, ad esempio, al disagio psicologico emerso in una larga fascia di popolazione, in particolare quella giovanile). I costi, dunque, sono altissimi, ma le risorse a disposizione sono sempre più risicate. E le crisi internazionali che ciclicamente si abbattono anche sul nostro Paese - e che richiedono iniezioni di denaro pubblico sempre più massicce nelle casse dello Stato - non renderanno possibili gli stanziamenti necessari per continuare a reggere a lungo il sistema. Che ricordiamolo, per dirla con il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, «è prezioso per il suo carattere universalista, cioè la vocazione a proteggere tutti i cittadini senza esclusioni».

Liste d’attesa, accessi al Pronto soccorso, carenza di medici, medicina di territorio, costituiscono un articolato labirinto in cui gli stessi addetti ai lavori si muovono con difficoltà. Certo, pesa il rapporto decisamente conflittuale tra pubblico e privato, ma non sarà certo eliminando il secondo a risolvere i problemi del primo. Che piaccia o no, sfilare oggi il privato vorrebbe dire togliere una pedina determinante del sistema, mandandolo in tilt. Servono, piuttosto, regole certe e uguali per tutti, chiedendo al privato gli stessi stressanti impegni del pubblico e monitorando con buon senso gli ambiti che gli garantiscono i pur necessari margini di guadagno. Ahinoi necessari, perché altrimenti non investirebbe più in sanità, mandando automaticamente in crisi il sistema, penalizzando i malati.

Al di là di tutto, comunque, non è solo una questione di soldi, ma anche di idee, e sul tappeto non sembrano essercene molte. Da qui l’auspicio che chiunque da domani governi la Lombardia sia in grado di mettere in campo uomini con l’esperienza necessaria per occupare i ruoli che a fine anno dovranno essere riassegnati nelle Ats e nelle Asst - Aziende socio sanitarie territoriali, che non si sia costretti cioè ad affidarsi a dirigenti impreparati o «voltagabbana», con tutte le conseguenze del caso.

Il tema è talmente serio che basta di per sé a trasformare la chiamata alle urne in un imperativo morale per chiunque abbia una briciola di coscienza civica, indipendentemente da come la pensi sulla politica. Ancora di più per Bergamo e i bergamaschi, che quest’anno si fregiano (con Brescia) di rappresentare i valori morali della Capitale della Cultura. Dal Duemila ad oggi la partecipazione alle diverse elezioni è passata dall’86 al 73%, in pratica, nell’ultima consultazione, un cittadino su quattro non è andato a votare. Un brutto segnale, non c’è dubbio, ma non è questo il modo per segnare il disappunto nei confronti di una classe politica impreparata, litigiosa e disattenta. Ma che - attenzione - è la rappresentazione della nostra società, la stessa di cui tutti noi facciamo parte. Non gettiamo al vento la possibilità più nobile che la Costituzione ci ha dato per dire come la pensiamo. «Votate, votate, votate»... Mezzo secolo fa, durante «Canzonissima», lo diceva la Carrà, a cui presto Bergamo dedicherà orgogliosamente un’opera lirica. Specchio dei tempi.

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