Bergamo senza confini a New York
La storia di Gabriella Savio

di Elena Catalfamo
Gabriella Savio, 45 anni, ha lasciato le Seychelles per la Grande Mela. Manager nell’hotel di Liz Taylor e producer per la Rai dopo l’11 settembre, quando rientra a Bergamo manda i figli all’oratorio. Scopri che cosa è «Bergamo senza confini».

A 24 anni ha vissuto per due anni nelle isole da luna di miele per eccellenza, le Seychelles. Peccato che lei non era lì per amore ma per lavoro e che, per giunta, non era neppure fidanzata. Si direbbe la prova provata che anche un paradiso terrestre può diventare un inferno. Non per Gabriella Savio, oggi 45 anni, originaria di Cologno al Serio. In quei 24 mesi in cui ha reso indimenticabili le vacanze di migliaia di italiani per Alpitour (ricordate la pubblicità? «No Alpitour, ahi ahi ahi») ha maturato la svolta della sua vita che l’ha portata di lì a qualche anno a ricoprire un ruolo dirigenziale al mitico «The Pierre» sulla Fifth Avenue di New York. Dall’hotel di Liz Taylor è poi diventata «producer» per la Rai dopo l’11 settembre e (senza neppure essere cittadina americana) è stata un’agguerrita «fundraiser» nelle due campagne presidenziali di Barack Obama.

Andiamo con ordine: ma perché una ragazza di 24 anni finisce su un’isola deserta, anzi peggio, piena di coppiette in viaggio di nozze?

«Be’, io amo viaggiare. Ho frequentato l’istituto tecnico per il turismo Giacomo Leopardi e ho imparato le lingue (ne sa 5 adesso ndr). Ho cominciato come animatrice nei villaggi Valtur in Italia, poi assistente turistica per Alpitour alle Canarie. L’azienda, dopo due anni, mi ha proposto di diventare manager alle Seychelles. E io ho accettato. Un paradiso terrestre, ma alla fine vedevo viaggiare gli altri e io ero sempre lì».

E quindi che hai fatto?

«Tra una coppietta in luna di miele e l’altra ho conosciuto un ragazzo, di origini indiane. Lavorava per la catena di alberghi Meridien. Gli diedero la possibilità di diventare training manager ma doveva trasferirsi a New York o Abu Dhabi. Mi chiese di seguirlo e mi lasciò carta bianca sulla meta. Io scelsi New York. La storia con il ragazzo indiano finì, ma io mi innamorai perdutamente della Grande Mela».

Da un’isoletta alla metropoli più frenetica del mondo, mi par di capire sola e senza un lavoro?

«Ho dovuto iniziare tutto daccapo: ho trovato lavoro come receptionist in un albergo nell’Upper east side di New York. Gli alberghi aprivano e chiudevano per lasciare posto ad appartamenti costosi in un quartiere molto ricercato. Io intanto però mi facevo strada. È così che sono finita al “The Pierre” sulla Fifth Avenue allora di proprietà della catena Four Season. Seguivo le relazioni con l’area vendite internazionali».

Quello in cui hanno vissuto Elizabeth Taylor e Yves Saint Laurent, dove hanno girato Scent of a woman e persino qualche puntata di Csi?

«Sì».

Ti ha aiutato in questo essere italiana?

«Penso proprio di sì. Per me è molto facile entrare in contatto con gli europei ma anche con i sudamericani, grazie alla lingua ma anche alla vicinanza culturale. Gli italiani sono molto amati ovunque».

Qualcosa mi dice che però non ti sei fermata al «The Pierre»…

«Ci sono rimasta qualche anno, poi mi sono sposata, e ho avuto due bimbi per cui non potevo più permettermi i ritmi di lavoro di un grande albergo».

Sposata con un indiano?

«No, con un inglese. A Cologno al Serio. Credo che il bar di fronte alla chiesa si ricordi ancora l’invasione dei parenti e amici di mio marito».

Che cosa ti manca di Cologno?

«L’oratorio per i miei figli. Quando torno d’estate li iscrivo sempre al Cre. Qui non c’è nulla di simile».

E di Bergamo?

«Il gelato (della Marianna) e la notte di Santa Lucia».

E che cosa non ti manca?

«I signori sul Sentierone, con il golf appoggiato sulle spalle e i pantaloni ben stirati. Qui puoi portare a scuola i figli in pigiama. Puoi essere Steve Jobs e mettere sempre lo stesso dolcevita. Nessuno ti giudica per come sei vestito. Non c’è questa cura maniacale per l’abbigliamento».

Ti sei sposata nel 2001, l’anno delle Torri Gemelle…

«A giugno, e nello stesso anno si è laureata mia sorella. Ho pensato di regalarle un volo per New York ed è partita il 9 settembre. Due giorni dopo il finimondo. Ricordo che mio marito mi ha chiamato la mattina presto pregandomi di non uscire, eravamo sotto attacco, mi disse. Io accesi la tv: la Cnn trasmetteva l’impatto dell’aereo su uno dei grattacieli del World Trade Center. Non sapevamo dove avrebbero colpito ancora. Quello era il cuore di Manhattan. Chiamai a casa in Italia per dire ai miei che stavamo bene. Parlai con mia nonna. Appena alzai la cornetta mi disse: “Gabriella scappa scappa”. Era incollata alla tv e quelle scene le ricordavano l’ultima guerra. Fu terribile».

Che cosa ricordi di quei giorni?

«Rudolph Giuliani, il sindaco di New York, fu un grande leader. Arrabbiato, orgoglioso, vicino alla sua gente, capace di governare una grande metropoli ferita. Un esempio».

E come ha cambiato il corso della tua vita l’11 settembre?

«Ho deciso di rispondere alla morte con la vita mettendo al mondo il mio primo figlio. E poi ho iniziato un nuovo lavoro: diventai producer per la Rai. La tv italiana aveva bisogno di persone da affiancare ai corrispondenti per la lingua, per organizzare interviste, per muoversi in città. Non avevo mai lavorato nel mondo dei media ma sapevo le lingue e conoscevo New York benissimo. È così che sono stata al fianco di Giulio Borrelli, Claudio Angelini, Flavio Fusi, il giovane Giovanni Floris, e poi Gerardo Greco. Una bellissima esperienza. Ho fatto la stessa cosa per le presidenziali di Obama».

Da un lavoro all’altro, e così diversi tra loro…

«La grandezza degli americani è questa: se tu vuoi intraprendere una nuova strada tutti ti incoraggiano, nessuna traccia di quell’invidia un po’ italiana per chi ha successo. Qui si dice che la tua fortuna sarà prima o poi anche la mia».

Ormai ti senti americana?

«I miei figli sono nati in America e sono cittadini americani per nascita. Mi sono battuta per Obama, ho sostenuto la grande macchina organizzativa del “fundraising” per la sua campagna elettorale. Tutti mi prendevano in giro perché ero per strada con i cartelli “We want change” e non potevo neppure votare. Poi sono diventata cittadina americana anche io. Ho sostenuto un esame di lingua, studiato il diritto civile, hanno setacciato la mia fedina penale, e poi il sì. Bellissima la cerimonia di investitura. Il motto è: “E pluribus unum”. Da tutto il mondo una nazione sola. C’erano nuovi cittadini da ogni angolo del pianeta sotto la bandiera americana. Una grande emozione, la grande forza dell’America».

Scopri che cosa è «Bergamo senza confini»

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