Diario dal Nanga Parbat:
Per gli 8 mila? Bisogna saper cantare

di Emilio Previtali

Una volta, quando ero piccolo, pensavo che gli alpinisti dovessero essere fatti tutti nello stesso modo. Barba, indispensabile. Manone grosse, anche quelle indispensabili, meglio se un po’ spelacchiate, segno di una recente avventura arrampicatoria.

Una volta, quando ero piccolo, pensavo che gli alpinisti dovessero essere fatti tutti nello stesso modo. Barba, indispensabile. Manone grosse, anche quelle indispensabili, meglio se un po’ spelacchiate, segno di una recente avventura arrampicatoria. Camicia a quadrettoni. Eccetera. Poi dopo sono diventato adolescente e quella invece era l’epoca del sassismo, dell’arrampicata libera, dei primi giubbotti in pile - basta flanella a quadrettoni - e dei capelli lunghi. E infatti mi ero fatto crescere i capelli lunghi. Poi ho iniziato a conoscere gli himalaysti, una specie particolare di alpinista, e per essere uno di loro pensavo servisse avere al collo una pietra Zí - imprescindibile - con ai lati due pietre turchesi e due coralli fossili. Tipo Messner, per intenderci. Elemento di riconoscimento indispensabile. Sono fasi della mia vita alpinistica che ho passato tutte, non ne rimpiango nemmeno una.

E arriviamo a oggi. Sono qui al campo base del Nanga Parbat con Simone Moro, è una delle tre persone al mondo ad avere salito tre 8.000 in inverno. Siamo qui a tentare il quarto.

Dovrei guardare lui e in prospettiva essere in grado di dire – magari a voi – come sono gli alpinisti dell’anno 2014. Fissare uno standard. Vedo Simone che lavora come un pazzo per allestire il campo base. Lavora, alla grande. Con ingegno, con determinazione, con caparbietà. Instancabile e sorridente. Come i nostri padri, come i nostri nonni. Come c’è scritto nel Dna della gente bergamasca: prima dell’alpinista, prima dell’atleta o dello sportivo, l’uomo. Allora mi viene in mente una cosa che mi aveva raccontato una volta il Mario Merelli: per essere un bravo himalaysta, devi saper giocare a carte. Che vuol dire saper portare pazienza. Stare con gli altri. Usare il cervello. Tenere il gioco del compagno. Ecco, io non lo so cosa ci vuole per essere un grande alpinista. Forse, io direi, bisogna saper cantare. La gente non canta più. Prima cantava il garzone del fornaio, cantava la lavandaia e la guardia notturna. Cantavano tutti, almeno un po’. Almeno sotto la doccia. Al volante. O in bici. La gente non va più nemmeno in bici. Allora riassumo: per essere dei buoni himalaysti bisogna essere dei gran lavoratori. Saper giocare a carte. E saper cantare, dico io. Poi vi faccio sapere se funziona. 

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