In Sudamerica tra mille disavventure

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NICKERIE (SURINAME) - È stato un parto dolorosissimo, era in cantiere da un pezzo, ma - se si esclude il carnevale di Bahia - è stato un mese e mezzo intenso e snervante come non mai, in cui ho sopportato una serie considerevole di disavventure (il fuoristrada sofferente mi sta rallentando, stavo per subire un linciaggio per aver urtato un pedone impazzito e sono stato respinto da due dogane per documenti insufficienti. Rendo l’idea?), imprevisti logistici ed errori di valutazione: il Land Cruiser resiste stoicamente ma reclama un controllo generale e c’è da risolvere in primis la grana del differenziale anteriore, ma il guaio è che mi sono sbadatamente infilato in un’area del Sudamerica - Brasile amazzonico, Guyana Francese, Suriname e Guyana - in cui le strade sono i fiumi tra la foresta pluviale, per cui devo saltare da una chiatta all’altra. Temo sempre di incappare in uno sterrato che il Land Cruiser, orfano della trazione integrale, potrebbe non sopportare (mi spaventa il tratto da Georgetown a Lethem in Guyana) e non ci sono centri affidabili per un’eventuale emergenza meccanica. Senza scordare che il mio ritardo si sta ulteriormente dilatando. Spero di entrare presto in Venezuela e poter pensare a come approdare in America centrale, considerato che in Colombia la Panamericana s’interrompe e che a Panama il fuoristrada potrà sbarcare soltanto da un container. C’è da valutare se è preferibile imbarcare il Land Cruiser in Venezuela o in Colombia. Avevo pensato di optare per l’opzione via mare già in Suriname, ma non è stato possibile.
Il mio programma originario prevedeva, dopo la Bolivia, il Perù e la partenza del fuoristrada su un cargo dall’Ecuador. Ho cambiato l’itinerario in corsa perché ho pensato che il Perù, pur incantevole, l’avevo già visitato nel 1997 e che avrebbe potuto essere più divertente attraversare il Brasile e risalire il Sudamerica dalla costa orientale. Soltanto che ho sottovalutato le trappole del percorso. Speriamo si riveli un peccato veniale.

Johannesburg era la metropoli che temevo di più in assoluto nel raid in quanto è considerata tra le più violente del mondo e le premesse non sono state confortanti, ma non per problemi di criminalità bensì perché, mentre eravamo ancora sulla strada, si è scatenata una fortissima grandinata. Non si vedeva più nulla. Entrando in città ci siamo persi e ci siamo dovuti fermare a un distributore per domandare informazioni. Con grande circospezione. L’obiettivo era Melville, ovvero un quartiere residenziale di Jo’burg (così è soprannominata la metropoli dai suoi abitanti), a nord-ovest dal centro, famoso per essere un paradiso gastronomico e in cui avremmo potuto soggiornare senza timore di subire un’aggressione.
Si tratta in effetti di un quartiere ricco con numerose ville, bed and breakfast impeccabili e un’atmosfera rilassata. La settima strada di «Old Melville» è un pullulare di ristorantini multietnici e di locali notturni dove trascorrere una simpatica serata e dove abbiamo notato una rasserenante integrazione razziale. La cucina mediterranea (italiana e greca) non ci ha tradito. La caccia a un letto è stata abbastanza laboriosa ma felice: abbiamo pernottato al Turret Melville, una casa in stile vittoriano con una torretta e circondata dai fiori, la classica guesthouse con charme (64 euro in due).

La mattina dopo ho acceso per caso la televisione e ho scoperto che a Soweto era in corso la maratona, trasmessa in diretta. Avevo naturalmente programmato di visitare Soweto, il quartiere nero simbolo della vecchia lotta contro l’apartheid, ma volevo volarci subito per non perdermi lo spettacolo della maratona. L’avessi saputo per tempo avrei partecipato anch’io, che sogno di correre quella di New York, a costo di stramazzare a terra a metà percorso. Una telefonata e un quarto d’ora dopo si è presentato Thomas, la nostra guida-autista. La visita domenicale è stata salata (eravamo solo noi due, 80 euro) ma la guida si è rivelata esauriente e affabile e ci siamo trattenuti con lui nel quartiere ben più del tempo concordato.


Thomas ha abitato in passato a Soweto, pur non essendo nato lì, e la conosce bene. Soweto è la township, ovvero la baraccopoli più grande e famosa del Sudafrica e una delle più note al mondo. Nata come ghetto in cui tenere la mano d’opera nera vicina a Johannesburg, è diventata un città nella città di milioni di abitanti, non si sa quanti siano con esattezza (orientativamente dai 2 ai 4 milioni).
Soweto divenne il cavallo di battaglia dei neri quando il 16 giugno 1976 una marcia pacifica di studenti che protestavano contro l’introduzione nelle scuole secondarie dell’afrikaans (la lingua dei dominatori boeri, ovvero un olandese fantasioso) scatenò una reazione smodata della polizia che uccise un ragazzo di 13 anni, Hector Pieterson (nella foto la lapide che lo ricorda). Esplose la rivolta che costò un migliaio di vite in un anno e vide i mass media di tutto il mondo schierarsi contro l’apartheid. Soweto divenne un inferno, la township più pericolosa del pianeta. E lo è rimasta per vent’anni. Ora è diventata praticamente un’attrazione turistica, anche se visitarla autonomamente resta ancora un po’ complicato e insidioso ed è più sensato affidarsi a una guida. Se si vuole, comunque, si può addirittura pernottarvi perché sono spuntati numerosi bed and breakfast.
Siamo entrati a Soweto nella quarta ora della maratona (segnata da madornali errori di percorso e vinta in campo maschile da Tsotang Maene del Lesotho con il tempo di 2.20’15"). Tra i partecipanti i neri erano la stragrande maggioranza, ma c’era pure una discreta percentuale di bianchi sudafricani e di stranieri. Clima di grande spensieratezza con i concorrenti che si fermavano e ci fermavano per reclamare una fotografia. Thomas ci ha raccontato che a Soweto ora abita pure qualche bianco, magari fidanzato con una nera.
Credevo che Soweto fosse simbolo di povertà, ma non è esattamente così: ci sono quartieri residenziali, come Diepkloof, per i neri ricchi dove si vedono ville, giardini curati all’inglesi e auto sportive (molti benestanti si stanno peraltro trasferendo nei sobborghi settentrionali di Jo’burg), ci sono quartieri che si stanno ripopolando dove il governo sta costruendo case spartane e standard per i più bisognosi, e case più decorose per la classe media, e ci sono quartieri disastrati, come Kliptown, dove acqua ed energia elettrica sono un optional, i bagni sono latrine o vomitevoli wc chimici in box allineati in strada, i bambini giocano tra l’immondizia e dove peraltro, come ha sottolineato Thomas, abitano pure persone che hanno un lavoro ma preferiscono continuare a vivere qui perché non pagano nulla.
I deprimenti, lunghi dormitori tra il filo spinato, quasi un campo di concentramento, dove era ammassata la mano d’opera nera e che erano riservati esclusivamente ai maschi, stanno per essere trasformati in abitazioni umane. Abbiamo visto la villa dove abita Winnie, l’ex moglie di Nelson Mandela, e quella del vescovo Desmond Tutu, Nobel per la pace. A Soweto c’è l’unica via al mondo, Vilakazi street, dove abbiano vissuto due Premi Nobel, Tutu (che è ancora lì) e Mandela.

La vecchia, dignitosa casa di Mandela (sopra nella foto) è stata trasformata in un museo. Tra le curiosità, una serie di scarpe usate dall’ex presidente sudafricano in momenti cruciali della sua vita. La piazza più famosa di Soweto è dedicata al tredicenne ucciso dalla polizia e nel moderno e interattivo Hector Pieterson Museum è ripercorsa, con documenti, fotografie e numerosi filmati, la storia di quel tragico 16 giugno 1976 e dei giorni bollenti e bagnati di sangue della rivolta.

Il nuovo simbolo di Johannesburg è il Mandela Bridge inaugurato nel 2003, i vecchi simboli sono i cumuli di scarti minerari che si notano in città e che testimoniano l’antica febbre per l’oro. Il quartiere centrale di Newton è stato riqualificato ed è diventato il polo culturale della metropoli. Su una rivista ero stato colpito da un grattacielo in vetro, a forma di diamante, sede di una multinazionale, che volevo immortalare e dunque mi sono avventurato in centro città con la fotocamera, sempre con estrema attenzione. Nessun problema. Se Cape Town è relativamente sicura, a Johannesburg si avverte maggiore tensione, i contrasti sociali sono più stridenti, ma in definitiva non abbiamo patito il minimo inconveniente.
Da Johannesburg, nella regione del Gauteng, a Cape Town ci sono più di 1.500 km. Abbiamo spezzato il viaggio a Kimberley, capitale del Northern Cape e principale centro diamantifero del Sudafrica. La principale attrazione della città, dove con un po’ di fantasia sopravvive ancora un’atmosfera da pionieri a caccia di pietre preziose, è il Big Hole, un’enorme voragine profonda 800 metri (ma se ne vedono soltanto 150 metri perché è quasi colma d’acqua), la più grande buca scavata dalle mani dell’uomo. Proprio lì abbiamo incrociato le partecipanti di Donnavventura, come ho già sinteticamente raccontato nella puntata numero 14 del racconto su internet, tra le quali non c’era peraltro la bergamasca Angelica Nembrini, di Calvenzano, una delle vincitrici della durissima selezione, perché era stata protagonista in un tratto precedente del raid nell’Africa australe (tre mesi con partenza e ritorno in Sudafrica attraversando Mozambico, Malawi, Tanzania, Kenia, ancora Tanzania, Zambia, Botswana e Namibia).

Capitanate da Maurizio Rossi, il responsabile organizzativo, le sei ragazze, che si alternavano al volante di tre pick-up Mitsubishi L200, sono state molto simpatiche: con Francesca Acciaccaferri, geologa ascolana, Francesca Minieri, addetta stampa romana della Croce Rossa e Bianca Mazzinghi, studentessa di Massa Marittima, ho scambiato impressioni sul raid. Le vincitrici sono state scelte, tra migliaia di candidate, in base alla loro abilità nella guida, alla loro intraprendenza e naturalmente anche alle loro virtù telegeniche (c’era pure un cameraman per le riprese). Erano coccolate e godevano di un’assistenza totale, ma la loro è stata indubbiamente un’impresa impegnativa.
Da Kimberley a Cape Town è stata una tirata: undici ore di guida consecutive, da mezzogiorno alle 23, per 1.010 km che rappresentano tuttora il record di percorrenza del raid in un giorno. Per quella notte non avevamo la prenotazione nell’ostello Backpack e lì non c’era un letto libero, così come in mezza città. Mi sono disorientato, nonostante ormai conoscessi bene Cape Town, e ho impiegato più di un’ora per scovare una sistemazione di fortuna in un appartamento abbastanza squallido a Sea Point. Alle 8 appuntamento all’officina Toyota di Claremont per la seconda razione di riparazioni (pompa dell’acqua e ammortizzatori posteriori cambiati) e per un ulteriore controllo generale.
Senza fuoristrada, abbiamo optato per un giro della città con il pullman a due piani scoperto che ci ha consentito di vedere scorci di Cape Town che non avevamo ancora visto o degnato della giusta considerazione, come i palazzi in stile art déco del centro e le splendide ville sui promontori rocciosi di Victoria road e Beach road (le più chic hanno ascensori per accedere in spiaggia). Siamo stati ancora a Camps Bay dove in riva al mare - peccato che spesso soffi un forte vento - abbiamo conosciuto Silvia, una donna dello Zimbabwe che mi ha ricordato come sia tragica la situazione in quel Paese, attraversato a fine agosto.
Silvia ha sei figli che erano rimasti ad Harare con il padre, un soldato dell’esercito, mentre lei era appena arrivata in pullman a Cape Town per vendere prodotti d’artigianato realizzati con le sue mani e aiutare così finanziariamente i suoi cari. Sarebbe rientrata a casa dopo un mese. Abbiamo parlato con diversi profughi che tentavano, con la loro vena artistica, di racimolare in Sudafrica quel denaro che ormai era impossibile guadagnare in Zimbabwe.
Per ritirare il fuoristrada a Claremont siamo saliti su un pulmino alla stazione centrale. Era per 15, eravamo in 16 stretti, stretti. Ma la nota stonata è stato il conducente abbastanza fuori di testa che ha alzato a tutto volume la radio con la sua musica rapper rintronando letteralmente tutti i passeggeri. Alcuni sono addirittura scesi per il rumore insopportabile. Dovevamo consegnare il fuoristrada il mattino dopo alla Elliott, incaricata della spedizione del Land Cruiser in Argentina via mare, e invece la compagnia mi ha avvisato in extremis con un’e-mail che la partenza della nave sarebbe slittata di sei giorni. Ho tenuto dunque il fuoristrada un giorno in più, se l’avessi saputo prima avrei potuto gestire diversamente il tour in Sudafrica.

La mattinata l’abbiamo così trascorsa in un complesso di piscine spettacolari con vista sull’oceano, dove abbiamo scambiato quattro chiacchiere con una coppia di anziani ma arzilli genovesi in Sudafrica da 52 anni (ci arrivarono con un viaggio in traghetto di un mese pagato 100 sterline), di cui 48 a Johannesburg, considerata ormai eccessivamente pericolosa. L’ultima sera prima della partenza di Sonia ho orientato la rotta su Stellenbosch, una cittadina antica e ben conservata a un’ora da Cape Town, famosa per i vini delle sue campagne. Abbiamo cenato in una piazzetta interna in un ristorante italiano dal nome singolare (Col’Cacchio) bevendo un Cabernet Sauvignon Merlot.

È venuta l’ora di consegnare il fuoristrada alla Elliott. Mi sono contrariato perché avevo concordato il costo in dollari, sono stati tramutati in rand ma con un cambio sfavorevole. Comunque, dopo un minuzioso controllo del fuoristrada, esterno e interno, ho dato l’arrivederci al Land Cruiser in Argentina. Abbiamo avuto il tempo per visitare un paio di bei mercatini in Church street e in Greenmarket square, in un giorno in cui è saltata l’energia elettrica per diverse ore, per assistere a un tramonto azzurro-rosa e in serata ho accompagnato in aeroporto Sonia; il tassista, con una gentilezza sorprendente, mi ha ricondotto all’ostello gratuitamente. Io dovevo rimanere a Cape Town un giorno e qualche ora in più.
Senza Sonia ho visitato ancora la città e ho puntato sul parco dei Company Gardens, dove c’è un monumento all’inglese Cecil Rhodes (fondatore della compagnia diamantifera più famosa del mondo, la De Beers; Rhodes pensava in grande e sognava di costruire per la corona britannica un impero dal Cairo a Cape Town), e sul museo che ricorda la storia del District Six, un distretto che fu raso a suolo perché classificato nel 1966 area bianca da riqualificare ma che in realtà divenne un’area desolata.
Con il nuovo corso, nel 2000, le terre confiscate sono state restituite ai vecchi residenti ed è stata avviata la fase di ricostruzione. Il museo è commovente con una serie di fotografie, ricostruzioni di ambienti, oggetti e testimonianze che inquadrano com’era la vita dei 60.000 abitanti prima dell’opera distruttiva dei bulldozer.

Volevo camminare a piedi fino all’area che avevo visto soltanto velocemente dal pullman a due piani, ma dietro il museo, era mezzogiorno, la via semicentrale, sono stato praticamente accerchiato da una banda di giovani neri abbastanza aggressivi che pretendevano l’elemosina. Ho dato loro qualche rand e si sono dileguati, ma ho deciso di non continuare l’esplorazione per evitare di avere magari guai supplementari. La sera ho cenato a casa di Francesco Marmorato, il rappresentante del Cesvi in Sudafrica, rivelatosi un amico prezioso, e con Paolo Fattori, un milanese di 42 anni, viaggiatore incallito e autore di un libro sui cocaleros boliviani e sul loro vecchio leader Evo Morales, che stava lavorando per un’ong in Sri Lanka su un progetto di aiuto psico-sociale alle persone colpite dallo tsunami del Natale 2004 ed era a Cape Town per perfezionare l’inglese.
Quanto all’attività del Cesvi, l’ong con sede a Bergamo è da anni in prima linea nella lotta all’Aids che in Sudafrica, così come nella quasi totalità del continente nero, è l’emergenza numero uno (ci sono il più alto numero di malati al mondo, 4,5 milioni, e uno dei più elevati tassi d’infezione) e ha lanciato un programma innovativo a Cape Town, nella consapevolezza che l’assistenza clinico-medica è già discreta e che una delle principali cause della diffusione del virus è l’abuso e la violenza sulle donne perpetrati normalmente dai partner abituali sulla base di un assurdo sesso forzato.
Il Cesvi, con il contributo di MediaMarket, sta concentrando le sue forze nella costruzione della Casa del sorriso a Cape Town (la prima pietra è stata posata proprio a marzo), ovvero una casa che darà aiuto a donne vittime di violenza domestica o di strada, donne che saranno protette da uomini proprio per sensibilizzare il sesso forte sui suoi errori. È già scattata la campagna di sensibilizzazione e mobilizzazione. Come avevo già accennato, le statistiche dicono che ogni 6 ore una donna è ammazzata dal proprio partner, che quasi una donna su due nella propria vita subisce almeno una violenza sessuale e che una donna su quattro è sieropositiva. Sono cifre allucinanti che danno una visione inquietante del Sudafrica. Ne parlerò più diffusamente sul giornale.

L’avventura in Africa si era esaurita, all’orizzonte il Sudamerica. Nella prima puntata dedicata al Sudafrica avevo scritto che mi incuriosiva soprattutto capire quale fosse il sentimento dei neri verso i bianchi, verso chi li aveva segregati e umiliati. Quello che mi è parso di capire, con il contributo fondamentale di Francesco, è che i neri nutrono naturalmente un profondo risentimento, ma che la promessa di Mandela al mondo (nessuna vendetta dopo la fine dell’apartheid) è stata mantenuta, il rancore confinato al pensiero. Il tempo forse laverà le ferite, anche se per il momento, nonostante il governo, inefficiente per l’ignoranza della classe politica, sia espressione dei neri, i bianchi continuano a detenere le terre (il 99%) e la ricchezza, mentre i poveri che si vedono in strada sono invariabilmente neri.

(25/03/2006)Marco Sanfilippo

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