Nel parco del Serengeti fra leoni e masai

CENTRAL KALAHARI (BOTSWANA) - Problema del carburante risolto al mercato nero di Harare in Zimbabwe, che siamo stati così in grado di attraversare, rafting avventuroso nello Zambesi a Victoria Falls, distruzione totale di una gomma, scoppiata improvvisamente nel deserto del Botswana senza gravi conseguenze, e cenone di capodanno ebraico con un’israeliana, e con i leoni nei paraggi, in un campeggio del Central Kalahari Park. Ecco le news del raid. Ed ecco la continuazione del racconto.


Da Nairobi alla Tanzania il passo è stato breve, soltanto 170 km di strada asfaltata. Una formalità le pratiche burocratiche, sbrigate velocemente sia in Keyna, sia in Tanzania, dove però abbiamo dovuto pagare l’equivalente di 24 euro per l’importazione temporanea del fuoristrada. Appena dopo il confine, non abbiamo potuto non notare un campo da calcio popolato da asini. Sembrava una partita Juventus-Milan.... A proposito di somari.


Nella precedente email mi sono scordato di raccontarvi un aneddoto divertente. In Kenya, dopo una curva, ci siamo trovati di fronte cinque asini, uno di fianco all’altro, che ostruivano totalmente la strada sterrata. Immobili, ci osservavano con aria di sfida. Doveva essere girata la voce dell’asino che avevo investito in Sudan.... Sembrava una scena da «Mezzogiorno di fuoco». Due minuti di suspense, fin quando i somari hanno deciso di defilarsi. Dal Kenya stiamo guidando a sinistra, secondo il sistema inglese, ma ci siamo accorti del cambiamento soltanto dopo decine di chilometri di sterrato, incrociando la prima macchina.

La Tanzania era, con il Sudafrica, il paese del continente nero che mi attraeva di più e le attese sono state ripagate: mi ha entusiasmato e in 26 giorni mi sono goduto sia le bellezze naturalistiche, sia la cordialità della gente e la simpatia della lingua, lo swahili. L’ho già scritto, ma «hakuna matata» («nessun problema, tutto si risolve») mi sembra una filosofia di vita fantastica. E finalmente ho avuto il tempo di integrarmi abbastanza bene nella realtà africana, di intuirne i meccanismi, senza dovermi fidare soltanto di sensazioni approssimative.

Della permanenza in Tanzania ho già raccontato in lieve differita la scalata del Kilimangiaro. L’abbiamo organizzata in mezza giornata appena arrivati ad Arusha, 100 km dopo il confine e punto di partenza di numerose escursioni per la sua posizione strategica. Ci siamo precipitati da Don, il titolare della Parks Adventure e corrispondente di Avventure nel mondo, che avevo allertato via email e il mattino dopo la spedizione è diventata realtà. Don è stato di una gentilezza unica. Ha custodito il fuoristrada a casa sua durante il trekking e, su mia richiesta, ha fatto montare un portapacchi nuovo in sostituzione di quello distruttosi nel deserto del Sudan (120 euro il costo con due preziosi scomparti, che si possono chiudere con il lucchetto, per le taniche di carburante). L’unico problema è che deve essere stato toccato inavvertitamente il sistema d’allarme perché da quando ho ripreso in mano il Land Cruiser, se uso il pulsante elettronico per aprire le portiere, scatta la sirena. Mistero, così mi sono ridotto ad usare la tradizionale chiave.

Del trekking sapete già quasi tutto. Paradossalmente abbiamo mangiato con maggiore regolarità durante la scalata perché avevamo a disposizione un cuoco che ci ha viziato. Colazione con tè o caffelatte, toast con marmellata e omelette con salsiccia, sacchettino per il pranzo con una coscia di pollo, una bevanda energetica, un formaggino, un frutto e un dolce; merenda con tè, popcorn e noccioline, cena a base di brodo di vegetali o carne, riso o pastasciutta, spezzatino gustosissimo con verdure e frutta (sempre tè come bevanda). Cenavamo a lume di candela in una tenda, un’atmosfera spartana ma molto romantica se non fossi stato con il mio amico Marco. Una sera Ambrose, la nostra guida, ci ha invitato a provare la specialità tanzaniana, ovvero l’ugali. È un impasto di farina di mais: con le dita si forma una pallina e la si intinge in una salsa con pezzetti di carne e di verdura. Discreto. Rientrati al campo base dopo aver raggiunto la vetta a quota 5.895 metri, è nata un’estenuante trattativa per la mancia. La richiesta di Ambrose, la nostra guida, era di 240 euro, una follia, anche se si parlava di otto persone in totale. Siamo scesi a 120 e quattro banane-radio. Dal momento che abbiamo condensato il trekking in cinque giorni invece che in sei, abbiamo deciso di anticipare anche la nostra partenza per il tour di tre giorni e due notti al cratere di Ngorongoro (qui sotto) e al parco Serengeti (420 euro con la sistemazione in due lodge).


Sempre Don è stato abile a cambiare il programma in corsa. La mattina dopo partenza con Vincent, la nostra guida e autista, a bordo di un pulmino tutto per noi con il tetto mobile per osservare la fauna. Prima tappa il famoso cratere di Ngorongoro, un antico vulcano sprofondato che si eleva sul fianco della Great Rift Valley: nei suoi 20 km di diametro si concentrano migliaia di animali in quanto ci sono acqua e praterie. Bellissimo, ma non straordinario, perché il colpo d’occhio è stato inferiore alle attese e perché il lago Magali all’interno era quasi prosciugato e di conseguenza c’erano pochissimi fenicotteri, per i quali stravedo.


Noi siamo stati comunque fortunati considerato che ci siamo imbattuti dopo mezzora in un leone e tre leonesse stesi al sole proprio a fianco della strada sterrata. Ed è stato agevole fotografarli con la mia Nikon D50 e un teleobiettivo da 300 mm. A Ngorongoro abbiamo osservato bene tre dei cinque «big five». ovvero leone, elefante e bufalo. Un leopardo l’abbiamo individuato da lontano, mentre un rinoceronte, a rischio d’estinzione, lo stiamo ancora rincorrendo. Le guide-autisti che circolano nel cratere con i turisti sono in costante comunicazione tra loro con la radio e non appena uno scopre un animale imperdibile avverte i colleghi. C’è da dire che hanno occhi allenatissimi. I leopardi si mimetizzano alla perfezione nell’erba alta o restano in agguato sugli alberi, individuarli è un’impresa. La sera abbiamo dormito nelNgorongoro Wildlife Lodge. Una struttura, armoniosamente costruita sul bordo meridionale del cratere, che ha camere con grandi finestre panoramiche. Il tramonto non è stato esaltante ed è calata subito la notte. Del cratere non si è visto più nulla. Cena a buffet innaffiata da vino sudafricano.

Seconda tappa al parco Serengeti. Tra le due aree confinanti ci siamo fermati a visitare un villaggio masai. È stata un’esperienza squallido-istruttiva, se così si può definire. Squallida perché è un tour preconfezionato per turisti. Si pagano 16 euro, il masai più colto dà un’infarinatura in inglese sulle tradizioni della tribù che dà il saluto di benvenuto con canti e balli e si visitano l’interno di una capanna, un’aula scolastica e il mercatino dove ci sono in bella mostra prodotti di artigianato in vendita a cifre mostruosamente elevate, tanto che la contrattazione diventa obbligatoria.


Un cassiere annota scrupolosamente su un quaderno ogni entrata. Istruttiva perché comunque si può avere un’idea di come viva una comunità. I masai sono un popolo di guerrieri-pastori semi-nomadi. Sono stati emarginati dal Serengeti, così come da molte terre, e numerosi di loro sono emigrati nei centri abitati riciclandosi come addetti alla sicurezza, prevalentemente portinai e guardiani notturni.

Chi non si è staccato dal villaggio continua a badare al bestiame e tenta di strappare il più possibile ai turisti. Per difendersi dai predatori i masai hanno un’arma in legno, ovvero un bastone che ha un’estremità a forma di palla appuntita, e uno scudo in pelle. Le loro capanne sono costruite con un’impalcatura di legno e con fango, sterco di vacca, paglia e talvolta pelli di animali per proteggere il tetto. All’interno ci sono due aree letto e al centro il fuoco per la cucina.


Abbuffata di animali pure al Serengeti, con le sue infinite praterie: leoni, leopardi (ma ancora da lontano), elefanti, bufali, giraffe, zebre, coccodrilli, gnu, ippopotami, iene, babbuini, e una svariate serie di antilopi. Pernottamento al Lobo Wildlife Lodge, a Nord del parco, un complesso in pietra e legno stupendamente integrato nella natura, tanto che sembra invisibile. Sul tetto giocano i babbuini.

La scena più accattivante il mattino successivo: una leonessa ha tentato di attaccare diverse antilopi, ma è stata scoperta, allora ha attraversato la strada per avvicinarsi a nuove prede. Purtroppo dovevano uscire dal parco prima che scadessero le 24 ore di permanenza e non abbiamo potuto vedere se le gazzelle abbiano corso più velocemente della loro maestosa avversaria.


Rientrati per l’ultima volta ad Arusha ed elargita una mancia di 30 euro a Vincent, abbiamo domandato informazioni su un buon ristorante. Ci hanno indicato Khan’s. Era il primo che avevamo scartato leggendo la guida perché di giorno vende pezzi di ricambio per automobili e di sera si trasforma in un locale famoso per le sue grigliate di carne. Il gestore è musulmano per cui è vietato bere alcolici, ma la carne si è rivelata gustosa, e molto speziata, così come le insalate.


Il giorno dopo abbiamo puntato su Dar El Salaam optando nell’ultimo tratto per uno sterrato che si è rivelato l’ennesima fregatura. Avevamo l’indirizzo del Villaggio della gioia di padre Fulgenzio Cortesi che è alla periferia dell’ex capitale. Ci siamo persi, abbiamo evitato le fucilate di due guardiane, eccessivamente apprensive, di un camping e ci siamo presentati al padre passionista bergamasco che era ormai buio.

Del Villaggio della gioia parleremo nella prossima email, anche perché la nostra prima visita è durata una notte. All’alba eravamo già diretti al porto di Dar El Salaam.


La puntata di Zanzibar è da liquidare in estrema sintesi. Le porte in legno intagliato di Stone Town, il profumo delle spezie e l’atmosfera esotica non ci hanno ingolosito. Dopo aver ingoiato molta polvere, volevamo soltanto riposarci in un villaggio italiano a Kiwengwa dove ci fosse anche animazione per divertirci. Era tutto esaurito e allora abbiamo dovuto ripiegare sul Bluebay Beach, un resort splendido ma un po’ moscio.

Su sei giorni di permanenza nell’isola, ce ne sono stati a malapena due di sole. Per il resto pioggia e nuvoloni. Ci siamo consolati giocando a tennis, biliardo e ping-pong. E gustando la cena a buffet preparata da un cuoco torinese. Una sera abbiamo gustato linguine al pesto fenomenali. Nel ritorno il mare era molto mosso e io sul traghetto ho vomitato l’impossibile. Ma il Villaggio della Gioia mi ha restituito il sorriso.


.Marco Sanfilippo

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