Olmi: «Il Paese è senza bussola
Non riconosco più i bergamaschi»

di Franco Cattaneo
«Bravo, venga: non ho ancora preso il caffè per berlo con lei». Ermanno Olmi è nella sua casa di Asiago, una gentildonna in questi giorni gonfia di neve, un po' fuori mano, a ridosso del piccolo aeroporto, sul limitare del bosco.

di Franco Cataneo

«Bravo, venga: non ho ancora preso il caffè per berlo con lei». Ermanno Olmi è nella sua casa di Asiago, una gentildonna in questi giorni gonfia di neve, un po' fuori mano, a ridosso del piccolo aeroporto, sul limitare del bosco. Il grande regista bergamasco, con l'inseparabile dolcevita beige, è al computer nello studiolo dove la cifra estetica è la sobrietà. Parla di politica (meglio: di cultura e costume politici), mettendo le braccia conserte e talvolta maltrattandosi una guancia con la mano destra. Parla anche della sua Bergamo e dei bergamaschi «che non riconosco più», dice. E si vede che soffre: il suo evidentemente non è un congedo dalla terra natale, ma la perplessità profonda e dolorosa di un intellettuale critico animato da passione civile.

Raramente sorride e di questi tempi gli capita sempre meno. Se ne sono andati anche gli amici di una vita. Dalla finestra, dove penetrano schizzi di sole, si vede a pochi passi la casa di Mario Rigoni Stern, severa quercia cimbra e cantore delle sofferenze dei soldati italiani nella ritirata di Russia. Lui e Olmi all'inizio degli anni '70 si erano messi d'accordo per mettere su casa fuori dal centro abitato. Sorride invece, il regista, ed è un sorriso che gli saltella fra le labbra, quando parla di Adriano Celentano, il «terzo uomo» del sodalizio asiaghese.

La villa di Adriano sta dall'altra parte della contrada, a ridosso della frazione San Domenico: «Certo che ci sentiamo, ma ormai siamo avanti con gli anni. Mi ha telefonato anche recentemente. Di cosa parliamo? Parliamo - e qui Olmi sorride compiaciuto - delle nostre fidanzate, di quando eravamo ragazzi, e di politica. E sui temi politici abbiamo molti più motivi per essere uniti che separati, separati peraltro non da una conflittualità militante ma amichevole».
Già che ci siamo, come vede questa Italia sgangherata che va al voto?
«In questo momento ho prevalentemente due umoralità. Da un lato lo sgomento di fronte a questo Paese che credo abbia perso l'orientamento che pure ha avuto in certi momenti storici. Penso ad alcuni degli uomini migliori che hanno riscattato vent'anni di fascismo al quale non ci siamo mai ribellati: ci sono volute la guerra e la morte sulla soglia di casa per rendercene conto, ma ahimè quella primavera è durata poco. Penso poi all'epoca delle grandi democrazie dopo l'ultima guerra. Dall'altro, allo sgomento e alla delusione si contrappone il ricordo di quei momenti ai quali dobbiamo rifarci per darci coraggio e quindi per riprendere ciascuno di noi, attraverso la singola partecipazione, la strada della democrazia che non ha alternative se non il cedimento alle dittature che non possiamo e non dobbiamo più permetterci».

Vedo che lei pone l'accento sul termine «dittatura».
«Oggi molte forme di dittatura si nascondono sotto la maschera fasulla di democrazia. Stiamo per andare al voto, il primo atto assoluto e irrinunciabile della democrazia. Vediamo la tragica esposizione di una carnevalata spacciata per democrazia e una partecipazione sfiduciata, non convinta da parte di noi elettori a diventare soggetti decisivi di un cambiamento reale e non soltanto apparente. Quando l'apparenza vuol nascondere disuguaglianze sociali che hanno come scopo primario il profitto di alcuni e la sottomissione di altri. Attenzione, perché già nella Storia abbiamo visto che questi preamboli spesso sono un chiaro segno di ammonimento per non arrivare alla deflagrazione di scontri, dove la democrazia vede il proprio fallimento».

La trovo estremamente preoccupato.
«Preoccupato è troppo poco. Sono sgomento. Al tempo stesso, però, credo che la Storia non si fermi e noi verremo travolti da una sorta di meteorologia sociale, meteorologia come burrasca sociale, dove pagheremo il conto della nostra indifferenza, rinuncia, persino della nostra ignobile sudditanza: piccole, e direi squallidamente limitate parti politiche, che creano privilegi fasulli, e quelli che le seguono, senza però risolvere secondo giustizia tutto ciò che in questa fase ci impedisce, perché sfiduciati, di intravedere un possibile traguardo di civiltà. E questa colpa non è solo dei potenti, ma spesso anche della nostra indolenza e indifferenza».

In questo quadro cosa vorrebbe dire ai bergamaschi?
«Ultimamente, pur ammirandoli sempre per la loro capacità di agire, è come se avessero perso un po' di memoria dei nostri padri che avevano come primo insegnamento il rispetto degli altri, il valore del soccorso vicendevole e della sobrietà. Io ancora adesso vivo con due riferimenti: i Vangeli e le raccomandazioni e gli esempi di mia nonna contadina Elisabetta. E domando, mi domando, lo dica così: chi sono attualmente i maestri di vita, al pari dei nostri padri dei quali dovremmo ascoltare ancora le voci? Proprio per il cedimento alla ricchezza e al denaro s'è creato una tale chiasso di baldorie varie per cui quelle voci non giungono più, non si trasmette più il patrimonio di saperi, civiltà e umanità».

Capisco il suo ragionamento riferito alla Bergamasca: più involuzione che evoluzione. Del resto qui bisognerebbe scendere nei particolari partitici e non so se sia il caso di parlare della Lega.
«No, no, invece bisogna parlarne. Siamo passati dall'Unità alla celebrazione della divisione, addirittura dell'implosione. Nella carta intestata c'è ancora Bergamo Città dei Mille e allora qualcuno mi deve spiegare questa contraddizione, sennò togliete questa definizione. I nostri padri avevano lasciato l'aratro per andare con i Mille: non le pare, lo chiedo a lei che mi sta interrogando, che sia una mancanza di rispetto? O mi spieghino, quei bergamaschi, quali sono i motivi per cui non si riconoscono più nell'Italia. Se mi dicono che i motivi sono economici, a questo punto però siamo allo squallore».

Il suo mi sembra un appello alla ricostruzione civica.
«Sarebbe un segnale per la stessa Bergamo riproporre alcuni esempi, quindi non programmi dettati dalla retorica del progetto politico, come il ritrovare e il riconoscere da parte del contadino la fertilità della zolla come un bene prezioso insostituibile e per questo dare un primo colpo di zappa non per accumulare profitti e convenienze bensì per affermare l'insostituibile valore del frutto della terra. In ogni campo del vivere civile. Per dare questo primo colpo di zappa in tutti questi orti occorre domandarci quale atto di testimonianza sto facendo per cui i nostri figli e nipoti, attraverso quell'atto, compiono l'ingresso nella società umana. Come si fa a coltivare l'orto della menzogna, del veleno, cosa vogliamo che vedano i nostri figli del mondo che stiamo governando e utilizzando?».

A questo punto Olmi si accorge che fatico a seguire le sue parole e mi precede.
«Sa perché faccio un po' fatica a parlare? Perché dentro di me quando esprimo un pensiero sento che spesso le parole hanno perso il loro significato sostanziale. E allora è un rovello: cerco di trovare il termine giusto e fatico, perché tutto è diventato ambiguo ed equivoco».

Ancora politica, Olmi: lei ha scritto la prefazione al libro di Umberto Ambrosoli, il candidato del centrosinistra alle regionali in Lombardia, «Liberi e senza paura», Sironi editore (che è aperto sulla scrivania del regista). Era amico del padre?
«No, non lo conoscevo, anche se allora eravamo vicini di casa, in via Saffi a Milano: io al numero 21 e lui credo al 15. Conosco invece Umberto, uno dei pochi che può pronunciare la parola onestà senza mentire: cosa rara. Ed è un eccellente avvocato».

Un'ultima domanda: il voto e il mondo cattolico.
«In queste ore la Chiesa ha mostrato la tragedia che sta vivendo e la scelta del Papa è un atto eroico. E molto più delle sue condizioni fisiche lascia intravedere dietro l'inadeguatezza dell'istituto secolare che è diventata la Chiesa. Chiesa senza coraggio, quella istituzionale. Lei mi chiede del mondo cattolico e anche qui noi cattolici dovremmo essere prima di tutto cristiani e come tali giudicare il cattolicesimo. Non ci siamo preoccupati per troppo tempo di prendere cura della nostra casa, che è la casa di Pietro che è in ciascuno di noi. Probabilmente abbiamo rinunciato ad essere cristiani attivi nel ridare voce al cattolicesimo, perché dentro ciascuno di noi non eravamo più casa di Cristo. Insomma: ce la siamo presa comoda, troppo comoda per essere dei cristiani».

L'intervista finisce qui, ma prima di chiudere c'è una breve immersione nella vita privata di questo figlio illustre di un ferroviere. La casa alla Malpensata dove è nato e che, commosso, ha rivisto recentemente. I cugini e i nipoti che vivono a Bergamo, «persone di cui ci si sente volentieri parenti».

E poi ancora uno sguardo all'uomo bergamasco: «Sarei davvero felice se Bergamo facesse una nuova spedizione dei Mille nel senso della metafora, cioè di eroici bergamaschi consapevoli che si deve costruire una casa nuova. Come si fa a pensare di vivere in un'abitazione che sta per crollare, là dove dobbiamo salvare per primi i nostri figli? Facciamo già fin d'ora una casa nuova perché duri nel tempo, sapendo che la realizzeremo al meglio delle nostre esperienze. Abbiamo il dovere di non ripudiare il passato, ma di migliorare ciò che siamo in grado di fare dopo aver assimilato l'esperienza del passato. E quindi ecco che sicuramente faremo una dimora che durerà di più e dove i nostri figli si sentiranno più sicuri».

Olmi è un po' stanco, «è ora di andare in pensione» dice senza crederci più di tanto. Sull'uscio di casa, prima dei saluti, indica un piccolo spazio dietro casa: «Dove vuole che vada? Faccio due passi qui, dove mi vengono a trovare gli animaletti del bosco: scoiattoli, lepri, volpi, caprioli».

Franco Cattaneo

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