«Per una donna imporsi è dura
Ma ho piegato anche i russi»

È uno dei pochissimi direttori d’orchestra donna al mondo. È nata tra i laghi piemontesi ma da 11 anni Damiana Natali vive a Bergamo dove dirige, con dolcezza e fermezza, l’orchestra Ars Armonica, che ha fondato sei anni fa.

Sogna di vivere in una casa costruita sugli alberi, momentaneamente però abita in Borgo Palazzo, in un palazzo con bella vista su Città alta, tra pareti imbottite, per non disturbare i vicini di casa quando si abbandona alla tastiera del pianoforte, strumento che ha iniziato a studiare a cinque anni. Quello a coda che tiene in salotto lo chiama «Friedrich», come se fosse una persona di famiglia.

Lei proviene da un lignaggio di musicisti?

«No, papà lavorava in banca, mamma era

un’impiegata amministrativa: era molto difficile per

loro immaginare per la loro figlia un futuro

musicale. Così oltre al conservatorio ho frequentato

anche il liceo classico».

Dove è

cresciuta?

«In un piccolo paese vicino a Borgomanero, che nemmeno appariva sulla cartina. Da ragazza

per me gli spostamenti erano difficili, per comprare un cd o uno spartito dovevo prendere il

pullman e scendere a Milano… Ma è un luogo silenzioso, dove ho potuto studiare, ascoltare la

natura, lavorare sull’interiorità. Un ambiente ideale per concentrarsi».

Una ragazza che studia musica classica è diversa dalle altre?

«Sì. Io non amavo andare nei pub o nelle discoteche come i miei compagni di liceo, e non

avevo i loro gusti. Mi ha fatto piacere quando li ho ritrovati dopo anni a un mio concerto,

contenti di esserci e… In giacca e cravatta, comprati appositamente per l’occasione».

Studiava molto?

«Tantissimo e sempre. In paese mi sentivano suonare dalla mattina alla sera: mi chiamavano

“la Beethova”. Ho iniziato a tenere concerti di pianoforte giovanissima, ma già allora volevo

dirigere: suonavo in un’orchestra di ragazzi e sognavo di essere al posto del maestro».

Cosa l’ha spinta verso la musica?

«L’emozione che provavo ascoltando i capolavori sinfonici, fin da bambina: indescrivibile.

Studiavo anche danza ed ero affascinata dai balletti, da Ciaikovskij e i grandi autori russi, che

ancora oggi mi sono rimasti nel cuore: li trovo molto vicini all’opera italiana, per la ricchezza di

temi, il lirismo, la forza che comunicano. La musica è il grande amore della mia vita».

Cos’ha di particolare, tra le arti?

«A differenza della pittura e della scultura, non permane, vive nel tempo in cui la esegui.

L’emozione che devi creare dev’essere talmente forte da poter essere ricordata anche

quando sarà sparita dai sensi. La musica non ha consistenza fisica: quando si smette di

suonare, o di far suonare - come capita a un direttore d’orchestra - si soffre perché non si ha

più niente da guardare, da custodire…».

Da chi ha imparato a dirigere?

«Mentre frequentavo il Conservatorio di Torino mi mandarono in Rai ad ascoltare le prove

dell’orchestra. Eravamo ammessi in pochi. Ho iniziato così, osservando i grandi direttori. Poi

ho frequentato corsi di perfezionamento, ma quella è stata una scuola notevole».

Quale direttore l’ha affascinata?

«Wolfgang Sawallisch per l’eleganza e la precisione. Riccardo Muti per la personalità e la

capacità di scavare nella musica. Anthony Pappano per l’immediatezza e profondità

dell’interpretazione, e per la sua umanità. Simon Rattle con un sopracciglio muove il mondo.

Poi quelli che non ho potuto incontrare di persona: Kleiber, von Karajan, Gavazzeni, Walter, Giulini...».

Cosa prova quando dirige?

«In quel momento hai per le mani un tesoro, un potenziale umano, oltre che sonoro: è come

suonare un grande strumento collettivo. Quando suoni il pianoforte sei abituato a vedere solo

metà della Luna; quando sotto la tua bacchetta suona l’orchestra, inizi a vedere l’altra metà: è

come se il mondo si girasse e ti accorgessi che per anni hai percepito solo una parte dello

spazio sonoro. La direzione per me è stata illuminante».

Come si fa a indirizzare un gruppo di artisti? Lei da dove comincia?

«Ascolto anzitutto come suonano, cerco di capire cosa ciascuno può dare. Poi comincio a

“sgrossare” l’esecuzione. Ma la cosa fondamentale è l’interpretazione, quello che c’è dietro e

dentro alle note scritte».

Per capire in che direzione andare, ascolta quello che fanno i suoi

orchestrali o segue una sua

idea?

«Ascolto spesso, soprattutto sul piano tecnico. Però in

un’orchestra ci vuole anche qualcuno

che conduca, che trasformi quella massa sonora in un’emozione unica e irripetibile: questo è il

mio ruolo. Altrimenti si disperdono le energie. Ciascun musicista è la tessera di un puzzle: io

senza di loro non sono musica, ma anche loro senza tutti gli altri non sarebbero la stessa

musica».

Come fa a tirar fuori con quella bacchetta un certo strumento?

«Oh, basta uno sguardo, sa? A volte nemmeno: un cenno, anche a occhi chiusi. Basta poco mi creda, pochissimo. La mimica facciale nella direzione d’orchestra è fondamentale».

È un mestiere difficile?

«Ci vuole molta concentrazione e determinazione, e grande preparazione. A volte mi trovo a

dirigere professionisti che hanno una certa età e grande esperienza, hanno lavorato con

direttori famosi e devo convincerli a suonare come sento sia giusto in quel momento. All’inizio

è dura. Poi provano e apprezzano».

Qual è stato il momento più duro della sua carriera?

«Con un’orchestra di russi in tournée in Italia: tutti uomini, a parte un paio di signore. Era la

prima volta che venivano diretti da una donna e nessuno mi prendeva sul serio. Eseguivamo

la Quinta di Ciaikovskij, io la sentivo con dei tempi più dilatati, italiani, diversi dai loro. Ho

dovuto fermarmi e dire: “Siete voi che dovete seguire me, non io voi!”. Il corno non mi voleva

assolutamente venir dietro. Alla fine però mi ha ringraziato: “Tu piccola ma forte” - mi disse».

È una carriera quasi temeraria per una donna.

«Sì, davvero. Sul podio si è abituati a vedere un uomo. A volte mi hanno scambiata per

l’assistente, per la segretaria del direttore. Prima me la prendevo, ora sorrido e penso alla

frase di Einstein: “È più difficile spezzare un pregiudizio che un atomo”. Nonostante tutto,

però, il mio lavoro è straordinario e non lo cambierei con nessun altro. È importante avere

polso. E sa cos’ha in più un direttore donna? Il sorriso».

Già, quella è un’arma che piega i metalli... Lei è severa però.

«Esigo serietà, silenzio, concentrazione, rispetto. Amo far capire e condividere quello che

immagino: se sono sul podio non è per sentirmi più grande degli altri, ma per fare grande

musica insieme agli altri».

Fa ancora concerti di pianoforte?

«Sì, anche in Germania: l’ultima

volta ho suonato alcune mie composizioni e una Fantasia d’opera con temi di Verdi, Donizetti,

Puccini, ed è stato un successo».

E compone.

«Sto lavorando a un Concerto per pianoforte e orchestra e a un’opera lirica per Bergamo che

ho nel cuore di scrivere. Sarà dedicata a un grande personaggio della storia di questo

territorio: una meditazione sulla caducità del potere che, il più delle volte, non basta per

essere felici».

Frequenta solo musicisti o anche gente diversa?

«Ho amici che fanno tutt’altro, ma non amo la vita mondana. Mi piace avere tempo per

comporre, suonare, passeggiare nella natura. Viaggio sempre, insegno ad Alessandria,

seguo a Roma il maestro Anthony Pappano come assistente, sono direttore artistico di due

festival...».

Fa qualcosa per tenersi in forma?

«Non quanto dovrei. Mi piace nuotare, andare in bici, in vela; non la palestra. Amo tutti i fiori,

passo le mie giornate di vacanza ai giardini botanici; adoro le case costruite sugli alberi».

Bergamo le piace?

«È una città in cui si respira e percepisce arte ovunque, io me ne sono innamorata la prima

volta che l’ho vista, e la vivo sempre con occhi entusiasti».

Cosa manca in questa città?

«Il verde. È troppo costruita, mancano parchi, spesso nelle zone centrali non ci sono alberi.

Se fossi un amministratore io punterei su piste ciclabili, qualità dell’aria, sull’arte e su

manifestazioni di livello».

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