Lo statista planetario
si chiama Francesco

È un giocatore globale, l’unico. Detta le regole e i ruoli per far girare la palla. Infrange ogni determinismo anche nelle logiche della diplomazia e mette in campo un dinamismo fluido, perché ha la perfetta percezione dei contenuti, dei problemi e delle prospettive.

Papa Francesco in una settimana ha indicato l’ultima tappa di un viaggio lungo un millennio con il traguardo storico dell’incontro con il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, con l’intervista ad «Asia Times» ha aperto le porte a Pechino e con un’abile finezza diplomatica ha permesso il ritorno a Roma dell’ambasciatore turco. Dopo la crisi provocata dalla frase sul genocidio armeno della scorsa primavera. E appena la scorsa settimana ha annunciato l’incontro con i Luterani in Svezia per i 500 anni della Riforma di Lutero, deciso a mettere a posto un altro tassello della concordia tra i cristiani in Europa. È la forza della geopolitica religiosa di Bergoglio, che procede con la categoria della misericordia.

Il direttore della Civiltà Cattolica padre Antonio Spadaro, uno degli uomini più vicini a Bergoglio, non a caso ha dedicato l’editoriale dell’ultimo numero proprio alla «diplomazia di Francesco» descrivendola secondo la categoria della «misericordia come processo politico». Non vuol dire che il Papa cammina al di sopra della Storia, ma significa che ha deciso di mettere da parte anatemi e dogmi, per cui nessun uomo, o governo, o popolo, o religione può essere identificato come nemico assoluto o parziale. È la versione di Bergoglio della Ostpolitik inaugurata da Roncalli e fatta arrivare al culmine dal cardinale Agostino Casaroli, ora valida per l’intero pianeta, senza mutare di paradigma, nella convinzione che nulla mai è perduto.

Quello con Ankara è un piccolo episodio, ma significativo. L’ambasciatore turco era stato richiamato in patria perché Francesco definì genocidio il massacro degli armeni nel 1915. Mercoledì scorso il professor Riccardo Marmara, noto storico cattolico turco, presenta al Papa al termine dell’udienza un libro dedicato alla squadra navale pontificia alla battaglia dei Dardanelli nel 1657. Notizia da nulla. Ma la Santa Sede pubblica una nota nella quale riferisce l’episodio nel contesto di una lettura che arriva fino ai «tragici eventi del 1915». Non si ripete la parola genocidio, perché la misericordia come categoria diplomatica non ha la smania di ripetere ciò che è stato già detto.

La diplomazia di Francesco non aderisce ad alcun obbligo, apre processi senza preoccuparsi di come si chiuderanno, spezza via schemi. Invita a non aver paura di Pechino, che ha in tasca le chiavi dell’economia globale, e invita a ragionare al contempo oltre la logica di Yalta, che resta drammaticamente alla base del grande gioco globale, molto più di quanto fece Wojtyla con la necessità per l’Europa di respirare con due polmoni. Nulla e nessuno considera perduto e tutti possono giocare in un mondo poliedrico, secondo una espressione a lui tanto cara, modo virtuoso di intendere la globalizzazione e di lavorare per la costruzione di ogni pace, geopolitica e religiosa, che non va tradotta affatto e assimilata alla tranquillità, destinata prima o poi a trasformarsi in inquietudine che far male ai popoli e alle religioni, di solito con risultati disastrosi.

A Kirill non ha posto condizioni. E ha lasciato che lui cogliesse nei suoi gesti, nelle sue parole, nelle sue scelte interne alla Chiesa e nel panorama internazionale, la cifra di un magistero con il quale potersi incontrare. Senza nascondere i problemi, che persistono, ma non sono più un blocco, polvere del passato, incrostazioni sul volto del Vangelo.

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