Tamburi di guerra
I rischi e le uscite

È facile, oggi, preoccuparsi per una terza guerra mondiale che pare alle porte e dimenticare l’Afghanistan del 2001, l’Iraq del 2003, la Libia del 2011, lo Yemen di ogni giorno, l’Algeria degli anni Novanta, la Cecenia, insomma i massacri del recente passato, meno spaventevoli solo perché noi eravamo meno coinvolti. Però è vero che la tensione internazionale, che bassa non è da molto tempo, oggi è alle stelle e promette di crescere ancora. Buona parte di questo inquietante salto in alto è da attribuire all’improvvisa metamorfosi di Donald Trump.

Il miliardario era diventato presidente additando nell’Isis la prima minaccia alla stabilità mondiale e indicando nella distensione, forse persino nella collaborazione, con la Russia la via giusta per combatterla. Di colpo Donald è diventato Hillary, tra gli applausi di coloro che fino a un mese fa non gli perdonavano nulla. Ha lanciato missili contro l’aviazione del leader siriano Bashar al-Assad, ha accusato la Russia di aver collaborato al presunto attacco con armi chimiche contro la città di Khan Sheikun, ha colpito i ribelli afghani con l’ormai famosa superbomba, ha inviato una flotta contro la Corea del Nord, ora minacciata anche di attacco preventivo. Trump è diventato un po’ Bush (vedi alla voce: attacchi preventivi) e un po’ Obama (vedi strategia dei droni). Si presume che Hillary Clinton si roda ancor più dalla rabbia: queste cose avrebbe voluto farle lei.

Le ragioni del voltafaccia sono chiare. La presidenza Trump è partita male, sottoposta a una fronda senza precedenti sia dallo sconfitto Partito democratico sia da una cospicua frangia del Partito repubblicano, che questo candidato prima anomalo e poi vincente non ha mai saputo digerirlo. In più, gli Usa vivono un caso senza precedenti, quello in cui un presidente democraticamente eletto è pubblicamente indagato (e quindi sfiduciato) dall’intelligence e dalla polizia perché sospettato di aver tenuto rapporti illeciti con una potenza ritenuta nemica, ovvero la Russia.

Se in Italia i servizi segreti e i carabinieri (per fare un esempio) indagassero sul presidente Mattarella e lo dichiarassero pure a Tv e giornali, oltre che in Parlamento, forse parleremmo di eversione. Proprio lì stanno gli Usa e Trump, per uscirne, si è reinventato un po’ Bush e un po’ Obama, adottando una politica gradita ai circoli democratici e neocon che gli avevano legato le mani.

Dal suo punto di vista ha fatto bene. Le contestazioni (organizzate e prezzolate?) di colpo sono quasi scomparse, i giornali che lo stroncavano ora lo accarezzano, i tamburi della guerra ricompattano l’opinione pubblica americana. I Paesi che già collaboravano con gli Usa (Francia, Regno Unito, Canada…) su fronti come Yemen e Iraq saranno stimolati a farlo ancora.

E noi? L’Europa, come sempre, non conta un fico. Ha partecipato al coro anti-Assad quando era il momento di farlo (le armi chimiche, le armi chimiche!), poi si è risieduta al proprio posto, composta e zitta. I cittadini europei, invece, hanno una sola ragione di fiducia, assai paradossale: la reazione contenuta di Cina e Russia. Di fronte a Trump che si agita scompostamente e quasi solo per ragioni politiche interne, Vladimir Putin e Xi Jinping incarnano una figura di statista più esperto e più conscio dei rischi che comporta scherzare con certi fuochi. Non sono due filantropi e fanno senza sconti gli interessi del proprio Paese. Di fronte al gigante brillo che pretende di fare il gendarme del mondo, però, sembrano un’oasi di cinismo ma anche di razionalità. Speriamo che basti. A evitare il peggio, ovvio. Prospettiva che potrebbe insegnare qualcosa di utile anche a loro

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